The Canterbury Murders

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«Il mio passaporto britannico, con le lettere d’oro e il blasone reale in copertina, annuncia che sono nato a Canterbury, Kent. Tutti hanno sentito parlare di Canterbury, fosse solo per il motivo che ci ammazzano gli arcivescovi». Così, con impareggiabile understatement, Michael Powell inizia le sue memorie. Il 29 dicembre di 922 anni fa, nella Cattedrale cittadina, l’arcivescovo Tommaso Becket  veniva assassinato per mano di quattro cavalieri che così avevano ritenuto di interpretare la volontà di re Enrico II d’Inghilterra. Fra monarca e arcivescovo vi era stata una lunga storia di ruggini, per lo più legate ai contrasti tra Corona e Chiesa (sullo stesso argomento, ma aggiornato a Enrico VIII e Thomas More, Robert Bolt scriverà il celeberrimo Un uomo per tutte le stagioni). L’episodio storico, com’è noto, ha ispirato Thomas S. Eliot per il suo Assassinio nella cattedrale. Un po’ meno noto è Becket ou l’honneur de Dieu di Jean Anouilh, da cui Peter Glenville trasse nel 1964 Becket e il suo re, con i magnifici Richard Burton nella mitra di Tommaso e Peter O’Toole nella corona di Enrico. Ermanno Comuzio ne ha scritto sul numero 34, aprile 1964, di «Cineforum», in una Scheda che qui riproponiamo. Da notare che O’Toole, quattro anni dopo, tornerà nei panni di re Enrico in Il leone d’invero di Anthony Harvey, duettando molto gustosamente con Katharine Hepburn in quelli della consorte Elenora d’Aquitania.


Becket e il suo re di Peter Glenville

Non si può prescindere, nella valutazione di questo film, dal testo teatrale sul quale si basa e del quale è una fedele trasposizione. Glenville, regista di teatro, ha veduto nel dramma di Anouilh una occasione soprattutto professionale, un impegno a tradurre in un mezzo di più capillare penetrazione come è il cinema un lavoro teatrale che l’aveva già impegnato a fondo, come regista, sulle tavole del palcoscenico.

Il compito affidato allo sceneggiatore era quello di conservare sullo schermo il rapido taglio dell’azione che già Anouilh aveva impresso al dramma e d’altra parte quello di snellire i dialoghi, talvolta un po’ troppo insistiti e sottili, politicamente e storicamente parlando, per la immediata comprensione del pubblico indifferenziato. Edward Anhalt – scrittore e produttore americano, sceneggiatore di film di Kazan (Bandiera gialla), Dmytryk (Nessuno mi salverà, Otto uomini di ferro, I giovani leoni) Kramer (Nessuno resta solo, Orgoglio e passione) – ha svolto il suo compito con efficienza, conservando non soltanto la maggior parte possibile delle battute originali di Anouilh, ma anche la successione strutturale del racconto. Le interpolazioni e le aggiunte di raccordo sono pochissime: fra la meditazione del Re davanti al sarcofago di Becket e il bagno prima del Consiglio (il flashback è anche in Anouilh) c’è nel film una breve sequenza che descrive una avventura notturna del Re e di Becket; la distribuzione dei beni ai poveri, che nel dramma è data per avvenuta, qui costituisce un episodio a sé; la scomunica di lord Gilbert (nel testo teatrale i notabili scomunicati sono più di uno) avviene durante una cerimonia che in Anouilh non è rappresentata.

Ma le variazioni più importanti, dettate da una intuizione felice, sono quelle che riguardano l’incontro del Re con Becket nell’Abbazia di Canterbury, in cui il Re rimprovera al Cancelliere il voltafaccia, e l’incontro dei due personaggi sulla riva del mare, dopo l’esilio. La prima di queste sequenze riassume, in uno scontro diretto fra i due che nel testo teatrale non avviene, i motivi che mettono ormai i due personaggi l’uno contro l’altro armati, inventando un dialogo di robusta efficacia drammatica, che definisce concretamente le ragioni private della collusione e quelle pubbliche. Tale colloquio è arricchito anche dalla restituzione diretta del sigillo reale di Becket. mentre nel dramma il sigillo viene recapitato da un messo. l’altra variazione, quella dell’incontro dopo l’esilio, è più che altro una estensione della scena teatrale, sostituendo alla piana deserta battuta dai venti del testo originale la riva del mare, con implicazioni paesaggistiche del tutto nuove.

Prima ancora che nella visualizzazione della sceneggiatura attraverso la fotografia, il montaggio, la scenografia eccetera, la caratteristica principale del film risiede nella recitazione, alla quale sono state dedicate cure particolari. La pellicola di Glenville, accentrandosi sul gioco delle battute e tenendo quasi sempre in piano ravvicinato i personaggi, viene a basarsi per forza di cose sugli apporti degli attori, che appartengono senz’altro al genere delle interpretazioni meditate e ricreate. Richard Burton nel ruolo di Becket e Peter O’Toole in quello di re Enrico sono stati voluti da Glenville, il quale ha fatto ricorso per i ruoli principali a un complesso di attori del teatro britannico, per lo più di formazione scespiriana, onde mantenere un livello di sicura nobiltà nelle pur diverse prestazioni, lasciando a O’Toole la possibilità di puntare verso toni che si allontanano da quelli “costruiti” del teatro per avvicinarsi a quelli realistici dei film d’ambiente contemporaneo.

Burton, col Becket, ha avuto la possibilità di riaffermare il suo sicuro talento di attore. Il suo Becket è elusivo e ambiguo, svaria dallo scetticismo e dall’opportunismo dell’inizio alla consapevolezza di sè, ma sempre con una interiorità e una matura riservatezza che contrastano con la estroversa passionalità del Re: Burton si mantiene sempre nei toni smorzati, recitando “come se parlasse al telefono” (lo stesso Burton dice che questo suggerimento gli è stato dato da Elizabeth Taylor…), ma sempre con una luce fredda e decisa nello sguardo che denuncia la sua vocazione alla dignità e al riscatto in nome di qualcosa che valga la pena di servire. Ruolo difficile, senza grandi occasioni evidenti per colpire la fantasia né “pezzi di bravura”. Il Becket di Burton è reso con sottigliezza e severità, e anche quando sembra grigio è in realtà vissuto con una specie di malinconico pudore.

Peter O’Toole, rivelatosi ai pubblici dei cinematografi con la sua vibrante interpretazione di Lawrence d’Arabia, è qui un Re flamboyant, coloritissimo, concentrato di umane passioni. La caratteristica del personaggio è la contraddizione fra i suoi diversi sentimenti riguardo a Becket: l’ammirazione, l’invidia, l’affetto geloso, la capricciosità, la tenerezza, il bisogno di conquista, la vulnerabilità, l’odio; e tale contraddizione è resa da O’Toole nei suoi diversi momenti con toni laceranti. La sua recitazione è tutta sopra le righe, spesso sfiora l’isterismo; interpretazione, sia chiaro, giustificata dal personaggio, semmai sviluppata in una direzione esasperata ma legittima.

Il più autorevole attore del cast è John Gielgud, al quale è stato affidato il ruolo del Re di Francia: un re elegante, distaccato, abilissimo nel gioco diplomatico, reso dall’attore con sorridente padronanza e con apparente facilità, mentre si tratta di intelligente uso di mezzi espressivi semplicissimi. Ottima Pamela Brown nel ruolo della Regina, a cominciare dall’aspetto esteriore del suo personaggio (quell’attrice sembra nata col soggolo delle dame medievali indosso, tanto è naturale il suo muoversi nel costume), anche se le sue apparizioni nel Riccardo III (in cui, come si ricorderà, non pronunciava una parola) erano più emblematiche e suggestive.

Fotografato in Panavision 70mm e in Technicolor, il film immerge la vicenda in una atmosfera lucida, luminosa, che si avvicina alla chiarità senza·ombre e senza rilievo di certe raffigurazioni dell’epoca, come si può vedere negli affreschi o meglio negli arazzi giunti sino a noi. C’è, a questo proposito, un preciso riferimento fra le scene di caccia e di guerra figuranti sugli arazzi che tappezzano la Reggia (dominati dai colori rosso, celeste e oro) e l’arazzo attribuito a Matilde, moglie di Guglielmo il Conquistatore, in cui è ricamata la conquista dell’Inghilterra da parte dei normanni (capo d’opera conservato nella Biblioteca di Bayeux, spiritosamente citato nel testo di Anouilh; ma nel film la battuta è scomparsa).

In questo tentativo di ricreare la “luce” interpretativa di un’epoca l’operatore Denis Unsworth e lo scenografo Maurice Carter hanno collaborato fruttuosamente, pur mantenendosi di norma in un clima realistico e senza voler creare qualcosa di originalmente autonomo, come avevano fatto Laurence Olivier e i suoi collaboratori in Enrico V. Il colore gioca comunque un ruolo importante perché le immagini sono composte con gusto figurativo e con preoccupazioni cromatiche, sia per costruire sfondi temporalmente fedeli (la Londra nebbiosa sullo sfondo durante la cavalcata del Re e di Becket dopo la “notte brava”; la facciata della Cattedrale di Canterbury alla luce del tramonto; il grigiore della nuda pietra delle pareti e delle colonne; i gruppi dei personaggi: i prelati in nero oro bianco·e verde pallido nella seduta del Consiglio, i tre cardinali in rosso vivo nell’anticamera del Papa, il pallido Re in mezzo ai suoi baroni, creature di ferro) sia per evocare atmosfere e stati d’animo. Vedi il bellissimo paesaggio marino in cui avviene l’incontro del Re e di Becket tornato·dall’esilio, dove i gruppi oscuri e immobili dei cavalieri delle due parti, il ferrigno castello sulla roccia, la spiaggia deserta, il mare livido, il cielo basso di nubi nere suggeriscono la “impossibilità” dell’incontro, che infatti costituisce soltanto una tregua nell’incolmabile dissidio fra il Primate e il Sovrano.

Glenville ha curato anche la composizione interna dell’inquadratura, pur senza ricorrere a effetti particolari in quanto la vicenda è raccontata con scorrevolezza esplicativa. Il formato panoramico non è sempre usato funzionalmente, ma in alcuni momenti – Becket sul fondo e il Re in primo plano in un angolo, nel colloquio del “tradimento”, o il marmoreo sarcofago di Becket in primo piano con il Re dietro, denudato sotto le sferzate – gli elementi plastici dell’immagine sono coniugati con senso drammatico. Dei costumi diremo, oltre agli accenni già fatti, che tanto è facile in teatro, per un attore, “far scena” drappeggiandosi in toghe e clamidi, tanto è difficile nei film in costume essere creduti uomini di carne e di sangue: i costumi del Becket evitano appunto la spiacevole impressione della recita di filodrammatici per farci credere all’umanità dei personaggi.

Il rapporto fra i due protagonisti, e cosi il martirio del Primate d’Inghilterra, sono raccontati nel film come rivissuti nella memoria del Re, in contemplazione davanti alla tomba dell’amico-nemico: il flashback, come detto, è già nel dramma di Anouilh, per cui il regista si è limitato a svolgere il suggerimento. Se il primo passaggio (dal sarcofago alla casa degli amori rusticani del Re e dell’amico) è reso con uno stacco netto, realistico, il secondo (dal viso di Becket ucciso al volto di pietra del suo monumento) avviene in dissolvenza, con un accostamento espressivo sottolineato anche dal montaggio del sonoro, poiché al «Povero Enrico!» del morente succede il rumore sinistro delle frustate sul dorso nudo del Re penitente.

Altra buona dissolvenza è quella che lega la fuga di Becket dall’Inghilterra al suo rifugiarsi da re Luigi: costruito con rapidi sintetici accenni. l’imbarco notturno sulla nave dissolve sulla scacchiera del Re di Francia, elemento che bene introduce la sottigliezza del gioco diplomatico di questo monarca. Per il resto, nelle sue linee generali il ritmo del film segue i momenti del lavoro teatrale, restando sempre nei binari della chiarezza espositiva.

Il tema del film è quello stesso presente nel titolo di Anouilh, Becket o l’onore di Dio. Quello di un uomo alla ricerca di se stesso, in un cinico che non crede nelle fedi e nei sentimenti al quale, improvvisamente, viene affidato un compito grandioso: difendere l’onore di Dio. Anouilh inventa che Becket sia il rampollo di una famiglia di sassoni, le popolazioni soggiogate dai normanni, il quale si comporta nei riguardi dei regnanti normanni come un “ collaborazionista”, lucido abbastanza per giudicarsi ma anche fiero di possedere una intelligenza e una capacità superiori a quelle dei suoi padroni. È lo scopo da dare alla vita che manca. Ma la sua non è neppure vita, poiché quando il Re lo interroga sul suo onore, Becket dice: «L’onore? L’onore è per i vivi, ai morti non interessa». Becket si sente appartenere al regno dei morti, malgrado il forsennato vitalismo cui lo costringe la compagnia di Enrico; è un morto che rivive soltanto quando si trova in Dio, e gli vengono così restituiti l’onore, la dignità, la ragione di vita. Anche in questo ritrovamento c’è una posizione dialettica: la facilità della pace, la comodità della santità, che rovescia la “tentazione al martirio” di Eliot, poiché qui la tentazione è un’altra, quella che corrompe gli slanci e gli ideali a favore dei compromessi e della fuga dalla lotta.

Nella opposizione del personaggio di Becket a quello del Re è simboleggiata la lotta fra il potere spirituale e il potere temporale, fra Chiesa e Stato, per cui l’intollerante comportamento del Primate sta a conchiudere nell’unico modo possibile il contrasto fra Dio e Cesare, sacrificando Cesare, anche se questo significa la perdita di un’amicizia e la morte fisica. Mentre Anouilh tiene questi temi sullo sfondo, non di rado facendone oggetto di abili e irriverenti giudizi personali, la versione cinematografica dà un rilievo più “ortodosso” alle ragioni spirituali di Becket e al suo martirio. Ciò non toglie che anche qui il rapporto umano fra i due personaggi campeggi su tutti i motivi: ed ecco la sugosa pittura di Enrico uomo, e non soltanto re, uomo che soffre, non il simbolo di un potere minacciato. Enrico, come Becket d’altronde, Anouilh se l’era “fatto su misura” e il film si attiene fedelmente alla raffigurazione anouilhiana: si tratta di un ignorante (mentre la storia dice che si trattò di un monarca non sprovveduto di cultura), un impetuoso, un debole. Il vero dramma nasce appunto dallo scontro fra una simile vulcanica personalità e quella freddamente fanatica di Becket.

Se si pensa che si tratta di un kolossal (tre ore di proiezione, schermo gigante, costumi costosi, eccetera) bisogna riconoscere che il Becket di Glenville è uno spettacolo degno, maggiorenne. Pur essendo un kolossal, Glenville ha rinunciato al movimento delle comparse, alle battaglie, ai fasti spettacolari; il suo merito maggiore è stato quello di non aver voluto fare del facile cinema, di non aver sviluppato le occasioni coloristiche suggerite dal testo: la caccia col falcone, la campagna di Francia, i viaggi fra Inghilterra, Francia e Vaticano, eccetera. Glenville non si è permesso invenzioni e variazioni sostanziali rispetto al dialogo di Anonilh. Nessuna grossa intuizione registica, dunque, come invece succedeva nei film scespiriani di Olivier, salvo forse per l’incontro sulla riva del mare, che è buon cinema ed è tutto inventato rispetto al testo.

Glenville si fa apprezzare soprattutto come direttore d’attori, poiché pur permettendo a ciascuno di esprimersi con la propria personale sensibilità, è evidente la concertazione degli apporti. Dai suoi personaggi Glenville ha tirato fuori soprattutto la componente umana, rinnegando le possibilità epiche per quelle drammatiche, di un dramma più interiore (il voltafaccia di Becket) che esteriore (l’assassinio), per cui si può anche dire, con lo stesso regista, che il Becket non è un film in costume, ma un film al quale capita di essere in costume, e nel quale il Medioevo fa soltanto da sfondo accidentale.