Mostra concorso

Die Saat di Mia Maariel Meyer

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Tempi duri per i troppo buoni, specialmente se fanno il passo più lungo della gamba.

Rainer lavora come responsabile in un cantiere edile (una volta si sarebbe detto “capomastro” ed è la sua prima volta in quel ruolo). Ha appena comperato fuori città una villetta da ristrutturare, dove si è trasferito con la moglie incinta e la figlia Doreen di 13 anni. Da subito i problemi non lasciano tregua. La dirigenza lo sostituisce con un altro assicurandogli che prima o poi – tra qualche anno – quel ruolo sarà definitivamente suo: intanto, prendendo meno soldi come muratore semplice, fatica sempre di più a onorare gli impegni presi (e infatti gli viene congelato il conto in banca, con soli 13 giorni a disposizione per coprire l'ammanco).

Nel frattempo l'adolescente figlia stringe amicizia con la coetanea vicina di casa, Mara, una bulletta sleale e invidiosa che la coinvolge persino in un furto in un un negozietto alla stazione di servizio, con conseguente lite e distacco. La duplice situazione, raccontata in parallelo, sprofonda sempre più in una scivolosa china di ingiustizie, frustrazioni, stress («Non siamo amici di nessuno» è la sconsolata ammissione di Doreen). Mentre il padre è costretto a fare doppio lavoro e si scontra in cantiere con il suo nuovo supervisore (e la madre rischia di abortire), la ragazzina viene aggredita più volte dall'ex amica. Una doppia situazione esplosiva che degenererà inevitabilmente in una reazione di violenza. Fino a che punto?

Mia Maariel Meyer è al suo secondo lungometraggio, dopo Treppe Aufwarts. Die Saat ( “il seme”, presentato al BFM nella sezione Mostra Concorso) trova come il primo, nel ruolo del protagonista, il conosciuto Hanno Koffler, un bel volto proletario con già tante interpretazioni in curriculum, tra cui quelle molto note anche da noi nelle serie tv Tatort e Babylon Berlin (ma anche un passato come batterista rock nel gruppo da lui fondato dei Kerosin), qui per l'occasione anche cosceneggiatore.

Siamo nel territorio che mescola dramma sociale a dramma psicologico, tanto congeniale a molto cinema teutonico di sobrio e determinato impegno civile. La spietatezza dei nuovi rapporti di lavoro incide sulle dinamiche sociali dall'ingiustizia alla ineluttabilità, senza apparente via di scampo per la gente piccola che persegue il suo diritto alla felicità nella correttezza e nel rispetto dei principi di libertà, eguaglianza e fraternità. E, come una tesi battuta a macchina solo ingentilita dall'umanità viva degli attori, la cinepresa scrive e descrive, tra piani ravvicinati e scene di movimento a comprendere anche l'ambiente e il contesto, una situazione che non lascia spazio a sfumature morali, deviazioni narrative di provocatoria suggestione o iperboli melodrammatiche.

Insomma, se vogliamo, un film quasi ideale per capire lo stato delle cose del cinema e della società tedesca; non per caso il BFM lo ha recuperato dalla recente Berlinale, dove faceva parte della sezione “Perspektive Deutsches Kino”.