Concorso

Happy End di Michael Haneke

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Un cantiere nel centro di Calais, operai al lavoro, un muro di contenimento che crolla e fa franare un terrazzamento su cui sono posizionati dei bagni chimici. È questa una delle prime scene di Happy End, vista attraverso la camera di uno smartphone. Più tardi scopriamo che un operaio è morto e altri, che si trovavano nelle toilette, sono rimasti feriti. Il cantiere è di proprietà della famiglia Laurant, intorno alla quale ruota tutta la storia. Da un lato il patriarca Georges (Jean-Louis Trintignant) che, anziano e stanco della vita, vuole farla finita e dall’altra i figli Anne (Isabelle Huppert) e Thomas (Mathieu Kassovitz), la prima che si affanna per salvare l’azienda prima che le cause legali la annientino e il secondo, medico, che tenta goffamente di riparare agli errori fatti con la figlia della prima moglie, la nuova compagna e l’amante insoddisfatta.

Come in Amour (2012), Haneke non trova altro modo per parlare della vita che attraverso la morte. Una morte raccontata come una costante, che sta dappertutto, dentro la vita di tutti i giorni e dentro i rapporti umani, quelli familiari e quelli economici e che più che una pulsione o una tensione tragica è una vera e propria condizione ontologica. Lo sguardo nichilista del regista austriaco non presuppone di dimostrare una tesi o di accumulare simboli; si estrinseca attraverso immagini che vanno analizzate, osservate e inseguite fino all’estremo. Come un oggetto non identificabile, perché capace di assumere tante, troppe forme, la morte non è mai rappresentata direttamente e anzi, diventa una presenza incorporea.

Proprio la scelta di non mostrarla, però, rende la morte ancora più potente. Haneke arresta il racconto sempre un attimo prima dell'evento, e (come avviene nel finale) non mette in scena nessun gesto drammatico, nessun momento tragico. Come Niente da nascondere (2005), Happy End non va alla ricerca di metafore, ma piuttosto cerca nell’atto filmico il limite stesso della visione e nella narrazione il punto oltre il quale non è più possibile dire o mostrare. Le riprese con lo smartphone, che aprono e chiudono il film, sono la testimonianza di tutto questo: dell’impossibilità di dare un senso alla morte (e alla vita), anche andando a filmarne l’essenza tragica. Proprio come nelle vhs di Niente da nascondere, l’immagine è senza significato, senza padrone e senza referente; un’immagine che non rappresenta la morte ma è essa stessa fatta di morte.

E allora il rappresentabile diventa un mondo dentro il quale non si comunica e dove gli individui non riescono a trovare punti di contatto. Calais è terra di confine dove il viaggio si arresta e dove l’esistenza non assomiglia più alla vita; esattamente come la famiglia - di cui Haneke celebra la dissoluzione completa - è ormai ridotta a costrutto sociale all’interno della quale i protagonisti non si capiscono, non si parlano e agiscono per secondi fini e interessi. Per questo il regista in diversi momenti riprende le situazioni a distanza, lasciando la macchina lontano dai personaggi e i dialoghi nell'indefinito. E sempre per questo, in uno dei momenti chiave del film, quando la piccola Eve va con il padre a fare visita alla madre morente all’ospedale, la macchina ci mostra i due da lontano che fugacemente entrano nella camera della donna e se ne vanno dopo pochi secondi. Il tutto accompagnato in un silenzio tombale. Come se oltre a non vederla, la morte, sia impossibile anche sentirla. E in un mondo che di quella morte è fatto non risuoni altro che un assoluto e angosciante silenzio.