Concorso

R.M.N. di Cristian Mungiu

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R.M.N. in rumeno sta per “Rezonanta Magnetica Nucleara” nel senso della risonanza magnetica, ma in fondo l’acronimo può anche essere letto come una sorta di sigla apocrifa di “Romania”. Mungiu offre una chiave di lettura del proprio film sin dal titolo, chiedendo allo spettatore di considerare R.M.N. come una specie di esame radiografico del proprio paese volto a esplorarne i minimi dettagli, quelli nascosti e invisibili a un primo sguardo. Un aiuto non trascurabile dato che il film si presenta come un testo davvero complesso e ingarbugliato, al limite del caotico.

La trama per la verità è abbastanza lineare, tuttavia come sempre nel cinema di Mungiu – e nel cinema rumeno contemporaneo – a contare non è tanto (o solo) ciò che i film raccontano, quanto tutto quello di cui sono fatti e sta loro intorno. Ambientato in un villaggio immaginario sperduto fra i boschi innevati di una zona non meglio specificata della Transilvania, R.M.N. gira attorno alla vicenda di Matthias, che torna a casa per le feste di Natale dalla Germania – dove fugge dal macello in cui lavora dopo aver picchiato il proprio capo reparto – e cerca di riprendere in mano la propria vita, occupandosi del figlioletto Rudi e del padre malato e riallacciando la relazione con la vecchia amica Csilla, manager della locale azienda di prodotti da forno. Rudi è rimasto traumatizzato e ha smesso di parlare dopo aver assistito a un fatto misterioso nel bosco vicino casa e Matthias cerca di farlo visitare da un medico. Nel frattempo la fabbrica di Csilla assume dei lavoratori stranieri, originari dello Sri Lanka, creando un forte malumore nella comunità. Le autorità cittadine, fra cui il sindaco e il pastore ortodosso, cercano di mediare fra gli abitanti e i padroni della ditta, ma il dissenso cresce fino a sfociare nella violenza. Tutto mentre la polizia indaga su Matthias per i fatti accaduti in Germania, un ecologista francese arriva in paese per mappare gli orsi presenti nella zona e Rudi riacquista la parola a causa di un altro evento traumatico.

C’è tanta, forse troppa, carne al fuoco in R.M.N. e non potrebbe essere altrimenti trattandosi dell’opera di un regista scrupoloso e attento come Mungiu. Che realizza un film ogni sei o sette anni e ogni volta cerca di costruire tanti piccoli microcosmi (e microstorie) dentro il medesimo racconto. E non per caso qui c’è molto del suo cinema passato, specialmente dei due film precedenti: Oltre le colline (2012) e Un padre, una figlia (2016), quelli ambientati nella Romania contemporanea e capaci di raccontare sottilmente e attraverso storie più o meno ordinarie, le storture e i paradossi della società rumena e delle sovrastrutture che la (dis)ordinano.

Il paesino di fantasia dove dominano intolleranza, chiusura mentale e ignoranza che il film mostra è esplicitamente una metafora dei tempi che corrono. La riduzione in termini esemplari della Romania (e volendo anche dell’Europa) di oggi. Dove la paura dello straniero, che ha lentamente sostituito quella atavica del lupo (o dell’orso) domina su ogni ragione e dove i cambiamenti prefigurano obbligatoriamente grandi catastrofi. Ma anche un luogo in cui transita la Storia: quella della Romania, terra di mezzo e di conquista che nonostante tutto è ancora lì, e quella dell’Europa di oggi dove i migranti non sono solo quelli che rubano il lavoro, ma portano anche i virus – il film tra l’altro è stato scritto e girato nel 2021 ma è ambientato nel 2019 dando a tutto una sfumatura ancora più drammatica.

Eppure non è solo questo, e cioè quello che sta in superficie, a risolvere la lettura di R.M.N.. Perché la risonanza magnetica Mungiu non la fa alla pancia ma, proprio come si vede nel film, alla testa. E allora c’è altro oltre a questo ribollire di una mentalità insofferente e irrazionale nei confronti dell’altro. Qualcosa che ha che fare con un’irrisolutezza strutturale, forse morale se non addirittura biologica del popolo rumeno. E il cui indizio più visibile è, fatalmente, l’immagine. Mungiu in definitiva sembra porre più domande di quante risposte riesca a dare – sia a noi sia a se stesso. Ma è nella frammentazione enunciativa da cui deriva questa irrisolutezza che va ricercato il senso di un film come R.M.N..

Dentro la complessità delle inquadrature, dentro gli infiniti riflessi che sdoppiano i piani e dentro a un montaggio mai così frenetico, spezzettato, irrequieto. Un sistema di scomposizione grafica che tuttavia ritrova la propria forma e la propria inscalfibile complessità dentro al piano sequenza lungo 13 minuti che arriva nel pre-finale. Quando viene messa in scena un’assemblea cittadina nella quale tutti i personaggi sono in campo contemporaneamente e la camera a mano (fermissima) gioca a sezionare con la messa a fuoco i vari piani dell’inquadratura. Ognuno di questi attraversato, a modo suo, dagli umori e dalle contraddizioni di argomentazioni e dispute verbali che si accumulano, sovrappongono e disperdono senza soluzione di continuità una dentro l’altra. Raramente si è visto rappresentare con tanta maestria e con un’immagine tanto dialettica la dispersione del discorso e della percezione politica del contemporaneo nel cinema di oggi.

Mungiu riflette con straordinaria complessità proprio su questa dispersione, costruendo un film fatto di percorsi divergenti e inconciliabili dei quali il protagonista – scisso, senza un vero posto nel mondo eppure capace di abitare le case di tutti e entrare, letteralmente, in ogni inquadratura – si pone come il simbolo più evidente.

Eppure anche dentro un quadro tanto ricco di elementi, spunti e metafore sembra esserci sempre qualcosa che sfugge, che non sembra di cogliere fino in fondo e non aiuta a risolvere i ragionamenti intorno al film. Qualcosa che sembra reclamare una seconda (addirittura una terza) visione e che per qualcuno potrebbe apparire più come un difetto che come un pregio. Ma che di certo è una prerogativa che appartiene solo ai grandissimi autori.