Ci sono immagini che non passano. Nel senso che non smettono di parlarci anche quando sembra di conoscerle, averle già viste, digerite. O immagini che raccontano storie, eventi, situazioni che crediamo di aver ben presenti e sui quali invece, grazie a loro, assumiamo un punto di vista differente. The Natural History of Destruction, il nuovo film di Sergei Loznitsa, è un caso esemplare in questo senso. Perché con il consueto lavoro certosino e meticoloso sulle immagini d’archivio il regista ucraino riesce a scrivere un testo dalla straordinaria complessità e a realizzare un’opera che va oltre qualsiasi categorizzazione: non un documentario in senso stretto e nemmeno un film narrativo, ma qualcosa che tiene insieme entrambe le forme e allo stesso tempo le supera. Dando vita a un alfabeto visivo di cui le immagini non diventano solamente segni grafici, ma una vera e propria lingua.
Vagamente ispirato al saggio Luftkrieg und Literatur (in inglese On the Natural History of Destruction) dello scrittore tedesco W. G. Sebald – da cui Loznitsa aveva già liberamente tratto Austerlitz (2016) – The Natural History of Destruction è un’opera di found footage incentrata sulla Seconda guerra mondiale. Partendo dalle settimane e i giorni di poco precedenti lo scoppio del conflitto, il film arriva sino ai momenti immediatamente successivi alla resa della Germania. Ma non essendoci alcuna sceneggiatura, alcuna immagine filmata dal regista e alcun tipo di descrizione degli eventi (parlata o scritta), il racconto è consegnato completamente al montaggio.
Quella di Loznitsa è dunque un’operazione di vera e propria archeologia dell’immagine. Cioè di un atto di disseppellimento di sedimenti, tracce, pezzi di memoria organica che appartengono al nostro passato e quindi alla Storia condivisa di ognuno di noi. Usare l’archivio come luogo di scavo e lavorarci dentro fino a estrapolarne i reperti più significativi è già di per sé una straordinaria azione di ricostruzione. Intervenire con il montaggio e tramutare quelle tracce in un discorso narrativo è però un gesto autoriale assoluto. All’interno del quale si configura l’idea che dentro l’immagine risieda un fortissimo valore testimoniale, ma nello stesso momento agisca anche la sostanza del presente, capace di parlarci del nostro ruolo di spettatori della contemporaneità.
Il film è infatti costituito da una serie di capitoli – separati da semplici fondi neri – che mostra cronologicamente lo svilupparsi della guerra attraverso quelli che potremmo definire dei blocchi tematici. Si tratta di immagini che arrivano da numerosi archivi pubblici e privati sparsi fra Germania, Francia e Regno Unito e illustrano il traumatico e repentino passaggio dalla vita pacifica degli abitanti della Berlino di fine anni Trenta a quella tragica delle città tedesche e inglesi distrutte dalle bombe, percorse da orde di sfollati e gremite di cadaveri. In mezzo sequenze che raccolgono i filmati dei bombardamenti a tappeto sulle città tedesche – Berlino, Colonia, Rostock e Lubecca – compiuti dagli eserciti alleati e altre nelle quali si vedono le fabbriche britanniche riconvertite all’industria bellica impegnate nella produzione di armi e mezzi da combattimento. Nel finale quelle stesse città, attraverso alcune straordinarie riprese aeree a colori, appaiono completamente rase al suolo: le case, i palazzi, i quartieri non si riconoscono più e si vedono solo enormi e indistinti cumuli di macerie.
Un complesso visivo che non può non riportare alla mente le immagini delle città ucraine come Mariupol’, Kharkiv o Chernihiv che stiamo vedendo ovunque in queste settimane e che Loznitsa ci chiede esplicitamente di porre in relazione. Viene allora lecito interrogarsi sulla scelleratezza della guerra e sul suo sconcertante ripetersi attraverso le epoche. Ma non è solo questo.
Il fatto che la prospettiva che il regista adotta per scrivere questa storia sia focalizzata quasi esclusivamente sul dolore e la sopraffazione del popolo tedesco dà al film anche una forte originalità. Vedere la distruzione dalla prospettiva del “nemico”, di chi nella Storia del XX secolo sta da sempre – a ragione è bene chiarirlo – dalla parte del torto, non rende meno impressionante e tragico assistere alle devastanti conseguenze della follia bellica. Qualcuno potrebbe storcere il naso, ma non è una provocazione quella di Loznitsa. Bensì un tentativo di riflettere sul potere del racconto e dell’immagine all’interno della complessità offerta dal discorso sulla Storia e la sua rappresentazione. Perché questo grado di differenziazione e relativismo – che non è revisionismo – aiutano a comprendere ancora meglio la natura complessa dell’immagine e il suo articolatissimo statuto teorico. Qualcosa intorno a cui il cinema del regista ucraino si interroga in continuazione e non smette mai di riflettere e di cui The Natural History of Destruction è l’ulteriore, imprescindibile, tassello.