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Una porta si apre e, dal nero dell’interno, riquadra all’esterno un paesaggio western. Fin troppo facile: l’incipit (e il finale) di quel capolavoro assoluto che è Sentieri selvaggi di John Ford, del 1956. Ma è curioso scoprire che un altro western inizia con la stessa immagine, nero, porta, paesaggio sabbioso e assolato all’esterno: Apache Drums (La rivolta degli Apaches), uno dei restauri proposti dal Cinema Ritrovato nell’ambito dell’omaggio a Hugo Fregonese, che lo diresse nel 1951, cinque anni prima del film di Ford, in quel filo rosso che lega tutto l’immaginario cinematografico americano senza soluzione di continuità (in questo film ci sono anche, in certi interni, soffitti bassi e opprimenti che rimandano direttamente a Orson Welles).

Western di serie B (ma fotografato da Charles P. Boyle in un Technicolor letteralmente fiammeggiante), Apache Drums racconta di una cittadina che si sta civilizzando, di un giocatore d’azzardo dalla pistola facile (ma solo per autodifesa) che viene allontanato dal probo sceriffo, ma decide di ritornare ad avvertire i concittadini della minaccia incombente quando trova sul suo cammino le ragazze del saloon (anche loro scacciate) sterminate dagli Apache. L’abituale conflitto dei protagonisti di Fregonese tra vagabondaggio e adattamento, la voglia di andare e qualcosa (qualcuna, di solito) che ti invita a restare. Ma le qualità del film risiedono nella sua forma, nella compattezza narrativa e nella tensione crescente, che culminano nell’ultima, lunga parte in cui gli abitanti, per resistere all’attacco degli indiani, si rinchiudono nella chiesa, un grande locale buio, con un portone di legno facile da incendiare e con troppe finestre situate troppo in alto per poter essere difese. Gli Apache (invisibili, solo tamburi e canti) le scaleranno e arriveranno da lì, quando la loro musica cambierà. E arrivano, infatti, figure dipinte di colori squillanti che risaltano nell’ombra e che appaiono improvvise dall’alto delle finestre. L’assedio, con l’attesa, i canti propiziatori all’esterno (e il controcanto tradizionale intonato all’interno), la successione degli assalti e infine il fuoco appiccato alla porta, è un pezzo di cinema notevolissimo, dove si avverte la minaccia che incombe nell’oscurità, invisibile e per questo la più terribile e paurosa.

Merito non solo di Fregonese; infatti, dietro di lui c’era anche il tocco, la firma, di un grande produttore,  creativo e visionario: Apache Drums è l’ultimo film prodotto da Val Lewton (che morì poco prima dell’uscita), l’uomo che (partendo da ragioni squisitamente economiche, dal basso costo del B movie) aveva fatto del buio il più ansiogeno dei mostri che ci perseguitano, nella straordinaria serie nera che tra il 1942 e il 1946 aveva realizzato alla RKO. Questi Apache sinuosi e colorati che si affacciano uno a uno alle finestre sono felini come l’ombra di una pantera che si staglia lungo il muro di un vicolo o di una piscina deserta; sono orrori dell’inconscio (anche collettivo) che ci assediano e ci chiamano a un viaggio nell’incubo.