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Citando la definizione di Jean-Michel Frodon, la filmografia di Godard è "una specie di foresta magica in cui ci si perde a piacere". E allora addentriamoci nel focus che inauguriamo oggi, cominciando a ripercorrere i sessant'anni di carriera di JLG, un Maestro che a partire da À bout de souffle ha davvero rivoluzionato il cinema e il linguaggio cinematografico.

L'Histoire de Godard è ripresa da uno speciale a cura di Alessandro Uccelli pubblicato sul n.0 di Cineforum nel dicembre 2020, in occasione del novantesimo compleanno di Godard e del sessantesimo anniversario dell'uscita al cinema di Fino all'ultimo respiro.

 

Fino all’ultimo respiro (1960)

Michel (Belmondo) ha rubato una macchina a Marsiglia, per rientrare a Parigi, e, sulla strada, ha ammazzato un poliziotto. A Parigi ritrova Patricia (Seberg), una studentessa americana che vende giornali sugli Champs-Élisées, e non è poi così convinta di stare con lui. Dopo anni passati a “girare film nella testa” Godard arriva al lungometraggio, ultimo tra i compagni dei «Cahiers», e lo fa con un polar, e, forse proprio per la gestazione più lunga, è l’esordio più di rottura. Un esordio che continua a sorprendere, un film-palinsesto dove c’è tanto cinema, del passato e a venire, rapporti intertestuali di ogni ordine e grado, tenuti insieme dalla freschezza intatta dei suoi protagonisti.

 

La donna è donna (1961)

Angela (Karina), Emile (Brialy), le uova, e Alfred (Belmondo), dall’altra parte della strada. È il terzo lungometraggio di Godard, è in Franscope, a colori, ed è a suo modo un musical, con le canzoni di Michel Legrand, che lo stesso anno comincia anche a lavorare con Demy. Ma è anche un film che trova il tempo di raccogliere in Eastmancolor i volti e i gesti della gente comune per le strade di Parigi, coro (quasi) silenzioso per le scaramucce tra la strip-teaseuse danese e il compagno con la fissa delle bici: lei vuole un figlio, lui no, lei minaccia di farlo col primo venuto, e potrebbe essere proprio Alfred. E, di notte, si insultano, a modo loro, giocando con le parole e le copertine dei libri.

 

Questa è la mia vita (1962)

La vita di Nanà (Karina), in dodici quadri, da aspirante attrice, fuggita dal marito e da un figlio piccolo, a prostituta contesa tra un innamorato e due protettori. Forse il più brechtiano dei primi Godard, con l’alternarsi di piani che rifuggono la norma, dialoghi negli specchi dei caffè, campi-controcampi negati, sguardi in macchina e primi piani “classici” di intensità insostenibile: il parallelo tra Karina e Falconetti fa la storia del cinema, oltre a constatare la “santità” della protagonista. La camera sembra voler fagocitare il volto di Karina, forse mai più come qui paesaggio senza tempo, e Il ritratto ovale di Poe, letto dalla voce stessa di JLG, è lì a ricordare i rischi di quell’eccesso d’amore.

 

Il disprezzo (1963)

I disprezzi: quello leggero di Godard per il libro di Moravia, «un romanzo volgare e grazioso da leggere in treno»; quello di Carlo Ponti per la versione monumentale, tenera e tragica, che Godard aveva tratto da quelle pagine: ne fece montare un’edizione rimusicata, doppiata e mutilata, nell’uso del colore e nella drammaturgia, enfatizzando la presenza della Bardot nei (senza i) panni di Camille. Per decenni, la versione visibile da noi è stata proprio il monstrum pontiano, ma i restauri e l’home video ci hanno da tempo restituito Le mépris nella versione Godard-Delerue-Coutard, a partire dai celebri credits elencati a voce sulla prima inquadratura, citazione apocrifa di Bazin inclusa.

 

Bande à part (1964)

Mai distribuito in sala in Italia, fino al 2018, le sue quotazioni sono via via cresciute nell’immaginario cinefilo, grazie a Tarantino, che gli ha dedicato nel 1991 la sua compagnia di produzione e poi a The Dreamers di Bertolucci. Un omaggio ai polizieschi di serie B, ma non un Godard di serie B. Se l’essenza ritorna a Griffith, «per fare un film bastano una ragazza e una pistola», nel tema del ménage à trois non è difficile vedere una risposta al Jules et Jim del “nemiamico” Truffaut. In controluce c’è anche il rapporto non facile tra la metropoli e la sua banlieue, nella quale si nascondono le tracce dei primi passi dello studio system francese, le serre di Gaumont e quelle di Pathé.