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TFF31: Da Emmaus a Dakar

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Da sempre attento, fin dal suo esordio, al cosiddetto cinema della reale, anche questa edizione del Torino Film Festival non poteva non dedicare un'ampia sezione ai documentari, italiani e stranieri: lo scopo, come sempre, è quello di continuare ad allargare gli orizzonti dello sguardo e delle conoscenze, fuori dai circuiti commerciali e mainstream (quest'anno i festival di Venezia e di Roma, premiando Sacro Gra di Gianfranco Rosi e Tir di Alberto Fasulo, hanno dato incoraggianti segnali su questo fronte, suscitando peraltro molte polemiche).

Nella sezione Italiana.doc abbiamo visto Emmaus di Claudia Marelli. Il titolo allude al nome di una comunità terapeutica per le dipendenze patologiche che si trova in Sardegna, nella provincia di Iglesias. Tre uomini, Antonello, Angelo e Fausto, ci raccontano le loro vite al termine di un difficile percorso di "guarigione" e di reinserimento sociale. Chi è diventato contadino e alleva con dedizione pecore e maiali, chi tenta di rinsaldare i legami familiari, chi racconta allo psichiatra il dolore di una vita segnata dalla droga e da episodi criminali. Tutti sono comunque alla ricerca di rinnovati spazi di libertà e di amore.

Pur delicato e affettuoso nel suo tentativo di abbozzare il ritratto partecipe di biografie a margine senza emettere giudizi, il documentario di Claudia Morelli, qui al suo esordio (e si vede), accusa qualche artigianalità di troppo, si affida a lunghi primi piani nella speranza che rivelino qualcosa, rinuncia a informazioni anche minime sul contesto che si propone di illustrare, finendo con l'esigere troppo dallo spettatore.

Nella sezione Documenti è passato invece Embassy della portoghese Filipa César, una delle tante opere presenti a Torino che indagano un tema complesso come quello del colonialismo e dell'ideologia che ne determina i modelli di rappresentazione.

In questo caso abbiamo un unico piano sequenza a macchina fissa di 27 minuti: una mano inquadrata dall'alto sfoglia un album fotografico conservato all'archivio nazionale della Guinea-Bissau e riferito agli anni '40 e '50, all'epoca del dominio portoghese. Pagina dopo pagina, il funzionario Armando Lona ci mostra immagini di volti anonimi, di paesaggi, di monumenti: piccole scene di vita quotidiana, quando si pagava la tassa sulla capanna e quando per le donne non era ancora uno scandalo mostrare il seno nudo. Poi è venuto il processo di assimilazione, che non va mai di pari passo, tiene a precisare la voce fuori campo di Lona, con quello di civilizzazione. Tracce, sedimenti, memoria di un lontano passato fatto di repressione e illegalità.

Suggestivo ed efficace si è rivelato infine Mille Soleils di Mati Diop, già vincitore del Gran Premio del concorso internazionale al festival del documentario di Marsiglia. Mati Diop è la nipote di Djibril Diop Mambety, il leggendario regista senegalese di Touki Buoki, capolavoro del cinema africano girato a Dakar nel 1973, che raccontava la storia d'amore tra Mory (Magaye Niang) e Anta (Miriam Niang) e del loro sogno di imbarcarsi per l'esotica Parigi: proprio un attimo prima di salire a bordo, Mory rinuncerà e Anta partirà da sola.

A quarant'anni di distanza, mescolando con abilità fiction e documentario, la giovane regista torna nella capitale del Senegal per verificare cosa sia rimasto di quel mondo e dei suoi protagonisti. Il risultato non è solo un intelligente viaggio dentro le contraddizioni della società africana di oggi (le strade sono intasate dal traffico, i giovani ascoltano musica assordante e accusano gli anziani di non aver lottato fino in fondo per ottenere la democrazia) ma anche una riflessione, venata di malinconia (quella che si legge in fondo agli occhi dell'ormai canuto Magaye Niang), sulla memoria del cinema e delle sue illusioni.