"Il treno va a Mosca" e Minervini

TFF31: Sguardi italiani Doc

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Hanno, curiosamente, alcune cose in comune Stop the Pounding Heart di Roberto Minervini e Il treno va a Mosca di Federico Ferrone e Michele Manzolini. Presentati al Torino Film Festival, entrambi sono collocabili nel grande calderone del “cinema documentario” ed entrambi hanno al centro uno sguardo italiano sull’estero.

Stop the Pounding Heart, presentato nella sezione TFFDoc, è la conclusione della trilogia texana di Roberto Minervini, iniziata con The Passage e proseguita con Low Tide.

L’autore marchigiano, ormai da diversi anni trapiantato negli Stati Uniti, racconta la vita di una famiglia di allevatori di pecore, ponendo particolare attenzione sulla giovane Sara, ragazza cresciuta seguendo i precetti della Bibbia e il rigido insegnamento dei genitori: l’incontro con un cowboy potrebbe rappresentare una svolta per la sua esistenza.

Come nelle opere precedenti, Minervini si conferma acuto osservatore della vita di provincia americana, mostrandone contraddizioni e degrado morale: grazie al suo stile, il regista riesce a trasmettere allo spettatore il disagio di un mondo che misura il valore di un uomo contando i secondi in cui riesce a cavalcare un toro meccanico. Il film, però, nonostante sia incisivo nei contenuti, fatica molto a carburare e gira eccessivamente a vuoto, soprattutto in una parte iniziale che è fin troppo “osservativa”.

Se Stop the Pounding Heart vuole, anche un po’ forzatamente, essere un “documentario” a tutti i costi, è molto diversa la natura de Il treno va a Mosca, preziosissima testimonianza di un importante evento storico.

Nell’estate del 1957 si svolse a Mosca il sesto festival mondiale della gioventù, a cui parteciparono circa 34.000 persone provenienti da 131 paesi. Tra questi c’erano anche dei giovani cineamatori provenienti da Alfonsine, cittadina romagnola: nel gruppo dei “registi” svetta Sauro, barbiere ormai in pensione, che racconta in prima persona quel viaggio e quelle immagini girate da lui e dai suoi amici.

Federico Ferrone e Michele Manzolini hanno svolto un lavoro encomiabile recuperando, selezionando e montando quei materiali così importanti. Il treno va a Mosca, inserito in concorso, rappresenta così un toccante documento sulla fine dell’illusione socialista, il viaggio che racconta è quello dell’ingresso in un’utopia che non si rivelerà essere altro che un fragile castello di carta.

Lucido nella narrazione della fine di un universo, dalle speranze dei giovani italiani di partire per la terra promessa alla morte di Togliatti, Il treno va a Mosca riesce a commuovere e a toccare corde emotive che difficilmente avrebbe saputo raggiungere un prodotto di finzione sul medesimo soggetto.

In un anno in cui il “cinema della realtà” di casa nostra ha già fatto suoi due dei festival più importanti (Sacro Gra a Venezia; TIR a Roma), si meriterebbe altrettanta (e forse più) gloria un documentario a tutti gli effetti che, senza alcun ricorso fittizio, riesce a raccontare la verità soltanto grazie all’espressione di tanti volti, entusiasti o disperati che siano, ripresi in 8mm.