Non è esattamente una rarità che il cinema cinese, soprattutto quello giovane, scruti verso occidente, tuttavia quando lo sguardo è inconsueto e personale come quello di Yue Chen, autore di The Scope of Separation, si scorge qualcosa di nuovo.
Lontano da quasi tutti gli stereotipi del romanzo di formazione e dai cliché che spesso accompagnano le opere prime, quella che costruisce il regista cinese è una storia leggerissima, quasi inesistente, come nei film della Nouvelle Vague o negli indie americani, ma che racconta con grande lucidità e amaro disincanto la vita della Cina di oggi e dei suoi abitanti.
E lo fa evitando di addentrarsi nella descrizione della marginalità – umana e geografica – oppure rappresentando la povertà, i rapporti di potere o la politica, ma scegliendo invece la prospettiva del capitale.
Liu è un giovane che vive a Taiyuan, popolosa città della provincia del Shanxi, Cina nord orientale (da non confondere con lo stato autonomo di Taiwan). Ha ereditato un po’ di soldi dal padre e li spende passando le giornate al bar con gli amici a bere, fumare e giocare a Mah Jong. Frequenta una ragazza, Yuzi, che poi parte per Parigi. Un affare immobiliare con alcuni speculatori e traffici poco trasparenti con uomini di dubbia provenienza spezzano brevemente la routine, ma poi sono di nuovo nottate passate a girare in auto senza meta, bevute, karaoke, feste. Prima o poi il ragazzo sa che i soldi finiranno, ma siccome non ha mai pensato al proprio futuro, non ha idea di cosa sarà di lui.
Un personaggio come Liu è senz’altro insolito anche per il cinema indie, cinese e non. Non ha alcun tipo di spessore, pensa e agisce in maniera banale, fa discorsi privi di interesse e di profondità. Non ha un pensiero, un’idea, un’opinione su quasi nulla e vive senza scegliere, lasciandosi trasportare dagli eventi. Non è nemmeno un antieroe, un esempio negativo o il simbolo di qualcosa (un ceto sociale, una generazione), è semplicemente insignificante. Eppure il film che Yue Chen gli costruisce intorno funziona e tutto quello che gli accade produce un senso.
Mostrare una vita sprecata, che non va da nessuna parte e che a causa del denaro finisce per sbiadirsi in una serie ripetitiva di transazioni, non sarà forse una scelta originalissima, ma mette a fuoco molto bene una prospettiva marginale del rapporto fra individuo e capitale. Inserendolo inoltre nella complessa macchina sociale della Cina contemporanea.
Liu è come intrappolato in un locus terribilis dal quale non riesce a uscire. E che non è tanto (o non solo) la città in cui vive o in senso allargato la Cina tutta (la “fuga” di Yuzi verso la Francia fa evidentemente da contraltare alla condizione di Liu), ma una logica, uno stato mentale che il ragazzo stesso si è costruito. La colpa è certamente sua – che manca completamente di qualsiasi motivazione o voglia di cambiare – eppure qualcosa di sbagliato anche nella società che lo "produce" si scorge, almeno in lontananza. È una falla nel sistema, Liu, uno che fa del vuoto che lo circonda il contenuto della propria essenza – e i lunghi dialoghi e i flussi di coscienza che non dicono nulla sembrano l’emblema proprio di questo. Ma se anche dopo tutti i fallimenti non impara altro che a continuare a vivere come ha sempre vissuto – benché il finale contempli la possibilità di un cambiamento – è anche perché quello che gli sta intorno è effimero e incorporeo come il fumo di sigaretta nel quale si trova costantemente immerso.