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Mathieu Amalric, l’Art et la Matière di Quentin Mével e André S. Labarthe

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Parte della serie Cinéma de notre temps, Mathieu Amalric, l’Art et la Matière è un ritratto intelligente e intimo che Quentin Mével e André S. Labarthe fanno del regista e attore Mathieu Amalric, che di Labarthe era amico – lo si era visto anche in un cameo di Tournée (2010).

Amalric è sul set di Barbara (2017), opera sulla cantante omonima che è tutto fuorché un biopic, forse non è nemmeno un film sulla cantautrice, probabilmente neanche un omaggio a Jeanne Balibar, che la interpreta magnificamente e che il regista guarda con estrema dolcezza, ma è in realtà un film su sé stesso, sull’incapacità di distinguere persona e personaggio, sulle mille facce di un attore-autore che si definisce inventato da Arnaud Desplechin e di fronte al quale è impossibile decidere se sia Amalric una creatura di Desplechin o se siano i personaggi di Desplechin facce diverse della stessa persona.

Nel film di Labarthe-Mével vediamo il regista-attore che si muove rapido sul set, parla coi collaboratori, con Balibar, sorride, fuma, è incerto, ha dubbi, si chiede perché stia facendo un film così complesso, si domanda se arriverà mai in fondo. Lo ritroviamo al tavolo che parla con lo stesso Labarthe, spiegandogli il suo metodo di lavoro, raccontandogli altri progetti musicali, con Barbara Hannigan e John Zorn, parla del montaggio del film, del fatto a un certo punto di non poterne più del film stesso talmente ne sia stato assorbito, di aver voglia di mollare la sala di montaggio, andare in strada a bersi una birra, ride, mostra la sceneggiatura scritta e riscritta giorno per giorno, spiega come immagina una scena, descrive come abbia scelto certi dettagli e soprattutto dice una cosa fondamentale del suo film forse del suo cinema e magari di sé stesso. In Barbara, proprio per la somiglianza sorprendente di Jeanne Balibar con la cantautrice, la capacità ormai di bilanciare il suono dell’epoca e quello registrato ora fino a renderli omogenei, di sovrapporre le immagini, restituendo identiche luci e colori, in maniera tale da rendere irriconoscibile la differenza tra l’originale e la messa in scena, Amalric afferma che da subito voleva invece che la messa in scena si vedesse, voleva che lo spettatore non avesse mai dubbi sul fatto di trovarsi di fronte a un’attrice (Balibar) che interpreta un’attrice (Brigitte nel film) che interpreta Barbara. E è questa la grande verità sullo stesso Amalric, che in fondo è tanto più autentico quanto più è istrionico, nel suo essere e giocare a essere nevrotico, con gli enormi occhi spalancati che si muovono rapidi, guardano l’interlocutore in maniera sorniona, sorridente, seducente, come dovesse conquistarne costantemente l’attenzione. In fondo tutta la confusione di un regista su un set di un film nel quale sembra essere perduto tra mille incertezze senza sapere che soluzione prendere, pare la stessa di un uomo alle prese col suo ruolo, uno dei tanti, da proporre agli altri, cosa che avevano capito perfettamente Shakespeare, Pirandello, Fellini.

E la sua inquietudine nel dire che non sa bene cosa pensare poiché si sente debole, a fare un film così diverso dall’altro, come se non avesse una voce autoriale forte, risulta in realtà ingannevole. Amalric ha uno straordinario talento registico e è un talento naturale, sensuale, poiché sentito più che pensato (nonostante dietro i suoi lavori ci sia un impegno e una concentrazione quasi totalizzante). Probabilmente il film che più gli somiglia è proprio Tournée, dove è alle prese con delle gigantesse che in un certo senso riescono a affermare sé stesse, grazie alla loro presenza sulla scena, all’ironia e all’intelligenza dei loro spettacoli, al fatto ci sia sempre un rischio di tracimazione sul palcoscenico come nella vita, lasciando che i due si mischino. Come ha ben capito Labarthe quell’uomo minuto e svelto dallo sguardo vivace e dall’entusiasmo contagioso non esisterebbe senza l’altro, sotto i riflettori, figurina nevrotica e cangiante, carismatico e incatalogabile, e entrambi non esisterebbero senza il suo immaginario vivido, improvviso, destabilizzante, che sembra sempre dover andar oltre, al di là di quello già fissato, come se, con una piroetta cambiasse le carte in tavola e prendesse un via di fuga imprevista, salvifica, originale.