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È un esordio folgorante quello di Ilya Povolotsky. E lo è in primo luogo per alcune scelte in forte controtendenza rispetto a tante opere prime – spesso tutte molto simili – che si vedono nel cinema recente. Come quella di girare in 16mm, usando la pellicola con grande sensibilità, adattandola ai campi lunghi, alla profondità di campo e ai piani sequenza ai quali si affida quasi in totalità. O quella di scegliere una storia esilissima, non sorretta da una narrazione forte, ma piuttosto da personaggi che si muovono nello spazio descrivendolo, determinandolo e rendendolo dialettico. Un padre e una figlia che vagabondano con un vecchio camper attraverso la Russia – soprattutto nella sua parte meridionale al confine con la Georgia – e in un tempo imprecisato che sembra prossimo all’apocalisse, portando proiezioni cinematografiche itineranti per il paese. Ed è in effetti un film sulla fine del mondo – con un respiro che ricorda il grande cinema d’autore dell’Est Europa à la Béla Tarr o Sokurov – capace di connettere passato e presente e dove la Storia sembra incombere come una presenza materica e ineluttabile. Povolotsky è classe 1987, ne sentiremo parlare.