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“La palisiada” sarebbe il modo in cui in lingua ucraina viene resa l’espressione “lapalissiano”. Philip Sotnychenko dice di aver scelto questo titolo per il suo film soprattutto perché gli piaceva il suono della locuzione, ma anche perché il significato cui rimanda – la reiterazione di un fatto già chiaro – suggerisce l’idea che non ci sia niente altro da dire o da capire rispetto a quello che viene mostrato e raccontato. Il problema però è che dentro La Palisiada di evidente, ovvio o esplicito ci sia davvero poco. E sia invece proprio in virtù della sua natura inestricabile, che alla narrazione sostituisce la suggestione e confonde i piani, i tempi e gli spazi, che il film risulta come l’opera affascinante e complessa che è.

La storia si muove fra due blocchi narrativi distanti e apparentemente estranei fra loro: un prologo ambientato nell’Ucraina di oggi (ma precedente alla guerra), in cui alcuni giovani artisti in conflitto con i padri e più o meno insofferenti nei confronti dell’eredità storica del proprio paese, litigano e si scontrano fino alle estreme conseguenze. E poi il film vero e proprio, che torna al 1996 e racconta dei padri di due dei giovani visti poco prima ai tempi in cui erano stati incaricati – uno come investigatore della polizia statale e l’altro in qualità di psichiatra forense – di indagare sull’omicidio di un ufficiale di polizia verificatosi in una remota regione occidentale del paese. Le indagini seguono un andamento molto difficoltoso e i due uomini si rendono presto conto di essersi infilati in qualcosa più grande di loro: una struttura di potere politico ancora pesantemente contaminata dai sistemi e dalle abitudini della vecchia URSS e alla quale è impossibile sottrarsi. L’indagine si risolverà infatti in breve tempo – dando la sensazione che tutto fosse già deciso e dietro ci fosse una sorta di vendetta personale da parte di qualcuno – con l’arresto, l’incriminazione e l’esecuzione di un giovane con gravi disturbi cognitivi. Il tutto solo pochi mesi prima che, in base al Protocollo nº 6 della “Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo”, venga abolita la pena di morte nel paese.

Sotnychenko lavora con grande intelligenza ed efficacia su un tema complesso come quello dell’intreccio fra storia e memoria e riesce a trovare una forma estremamente originale per raccontare l’impossibilità, nel presente frastagliato e ricco di contraddizioni in cui viviamo, di distinguere una e l’altra. Perché è soprattutto un film sulla colpa La Palisiada. Che riflette sulle responsabilità storiche in senso individuale e collettivo e mostra come quello della colpa non sia solo un elemento scivoloso e multiforme, che supera le generazioni e ricade dai padri sulla testa dei figli, ma anche qualcosa di ineliminabile all’interno di un popolo-nazione che prova a sostituire una forma di governo autoritaria con una democratica.

Ed è impossibile in questo senso, non leggere nel film i riferimenti con la contemporaneità. Quella di un’Ucraina che, allo stesso modo dei giovani che si vedono all’inizio, non riesce a comprendere la tragedia senza confini nella quale è precipitata e si trova smarrita in un tempo dentro cui ha perso i punti di riferimento. Il conflitto generazionale, la confusione e persino la violenza che si vedono nell’epilogo, in questo senso diventano molto più che metafore del presente, ma vere e proprie condizioni esistenziali e metri di giudizio e per provare a capire il quadro storico in cui il film si inserisce. Cos’è del resto l’Ucraina di questi ultimi trent’anni se non un frastagliato e inestricabile insieme di narrazioni, ideologie, politiche e conflitti a cui, proprio come alla storia, è impossibile dare un ordine e una lettura esaustiva?

È soprattutto in quest’ottica che Sotnychenko utilizza più piani narrativi e una forma non tradizionale di racconto. L’idea è quella di mettere chi guarda di fronte a un sistema non riconciliato di narrazione e rendere anche in termini visivi il disorientamento che vivono i personaggi. Il formato 4:3 e la grana Dvcam che contraddistinguono la parte di film ambientata nel 1996 (contro l’1:85 digitale del presente) sono a ben vedere gli unici veri punti di riferimento che il regista fornisce allo spettatore per provare a ricostruire gli eventi. Come se volesse suggerire che l’unica “verità” sia quella che sta dentro le immagini. Non tanto per un presunto statuto di oggettività di queste ultime, ma per come attraverso esse si possa costruire un immaginario riconoscibile e condiviso e attraverso il quale dare forma alla memoria. Che per una nazione e un popolo divisi, martoriati e vilipesi dalla storia sarebbe un importante, se non fondamentale, punto di ripartenza.