focus top image

L’esordio di Ali Kalthami, regista saudita, è un film di apparente compattezza che si situa in tutti i sensi ai margini. Ai margini per ciò che racconta, la storia di un uomo lontano dall’immagine opulenta dell’Arabia Saudita identificata all’estero; ai margini per la posizione occupata dal protagonista stesso all’interno della narrazione. Ai margini, infine, perché è un lavoro completamente notturno, privo di qualunque spiraglio di luce solare che pur sarebbe presumibile in un’ambientazione araba.

E invece Kalthami sceglie di narrare tutto nell’oscurità, oltre i limiti del giorno in cui si rivelano alcune delle contraddizioni della società saudita, perlopiù sconosciute al pubblico occidentale. Mondoob, che significa colui che consegna pacchi, ma anche lo sfigato o il destinato addirittura alla morte, è in effetti il film arabo che non ci si aspetta (ammesso che ce lo si aspetti), perché non concede nulla alla visione antropologica o documentaristica (ricordate La bicicletta verde di una decina di anni fa?) ma si dipana come un noir crepuscolare con accenti da commedia che potrebbe tranquillamente essere stato girato a Los Angeles o a New York, se non avesse alcune sue decisive specificità e non vagasse tra alcune delle strade meno riconoscibili di Riad.

Tali peculiarità ruotano intorno al protagonista, Fahad, un operatore di call center che resta senza lavoro per la sua negligenza ed è costretto a lavorare di notte come fattorino di un’app per la consegna di cibo per far fronte alle notevoli spese familiari, dovute a un padre anziano e malato e a una sorella che cerca di avviare un’attività commerciale. La ricerca di denaro lo porta a tentare vie illegali come il contrabbando di alcolici contraffatti (in Arabia gli alcolici sono in larga parte proibiti) e a pestare i piedi sbagliati.

Prodotto da Telfaz 11, casa di produzione affacciatasi recentemente al cinema dopo gli inizi come canale di contenuti online, Mondoob è un oggetto non ben identificato, segue traiettorie apparentemente casuali e oscilla in continuazione tra il racconto picaresco, il road movie urbano e le anomalie di un thriller fondato su una tensione spuria, perennemente insatura, capace di concentrarsi su situazioni banali, ma trattate come se fossero questioni vitali (tra queste, un interessante momento di suspense sulla firma da apporre su una lettera di licenziamento che origina un fondamentale snodo narrativo). Una costruzione della tensione basata più sullo stile che sugli eventi della sceneggiatura, intensificata grazie ai movimenti accennati ma costanti della macchina da presa e all’utilizzo di un teso accompagnamento musicale elettronico composto, tra gli altri, da Fanny Lamothe.

La mancanza di una precisa attribuzione di genere permette che emerga un apprezzabile studio di carattere del personaggio di Fahad, rappresentato inizialmente come un individuo ordinario, pronto a ingegnarsi nei limiti delle sue possibilità per tentare di ottenere un vantaggio dalle occasioni che gli si presentano. Tutto il film ruota intorno al suo sguardo, con cui filtra nei confronti del pubblico una visione su un’Arabia Saudita particolare, tendenzialmente sommersa: il lusso è solo una patina destinata a pochi fortunati, un sogno irraggiungibile per la maggioranza silenziosa e pressoché invisibile. La prospettiva di Fahad non fa altro che confermarlo plasticamente per tutta la durata del film, ponendosi sempre esternamente rispetto al miraggio della ricchezza, osservando le zone del lusso sempre dal basso verso l’alto e gli ambienti altolocati restando sempre al di qua di pareti trasparenti, che lasciano intravvedere per illudere ma che sono di fatto inaccessibili.

La notte che assorbe ogni singola inquadratura è quindi una chiara metafora di una società occulta e parallela in cui le pressioni economiche sono sempre più soffocanti e le condizioni di vita della maggioranza appaiono disagiate, mentre il contrabbando con cui si cerca di colmare il gap economico individuale e il divario nei confronti della libertà occidentale è una mera consolazione che non apporta materialmente alcun vantaggio. E che anzi rischia di accelerare la fine di chi non accetta la posizione sociale destinatagli.