"L'attesa" di Piero Messina (Concorso)

La stanza del figlio

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L'attesa è un titolo che di per sé invita all'interpretazione meta-testuale e, ahimè, porge facilmente il fianco allo sberleffo. Ovviamente, se il film fosse stato presentato in un contesto differente, molti di coloro che ora si mostrano livorosi osteggiatori non l'avrebbero nemmeno notato. Però, per tutta la durata di questo primo lungometraggio di Pietro Messina, o almeno per tutta la prima metà, lo spettatore attende che Anna, la mère française-Juliette Binoche, dica alla fidanzata del figlio Giuseppe, Jeanne, la jeune et jolie Lou de Laâge, che è successo qualcosa di cui il pubblico è stato messo al corrente per tempo. Fin dalla prima inquadratura di un Cristo schiodato dal crocifisso, presentato dall'alto, troppo simile al Cristo di San Giovanni della Croce di Dalì, dal coro di prefiche, ammutolito come la madre, dall'extra omnes domestico, con gli specchi di casa ricoperti di teli neri, la camera lasciata come lui l'aveva lasciata, col letto sfatto e la colazione lasciata a imputridire. Lo spettatore si è fermato tanto prima e sa benissimo che non è il fratello di Anna ad essere passato tra i più (soprattutto, perché mai anche lui in Sicilia?), ma che è Giuseppe a essere morto. Invece – la storia si svolge nei primi anni 2000, quando evidentemente, senza social e smartphone era più facile sparire, ed era appena più plausibile farlo senza rispondere mai al telefono – Jeanne si beve la menzogna di Anna, e accetta di unirsi alla sua attesa, senza porre troppe domande né mostrare eccessivi segni di spaesamento (possibile? è pur sempre una ragazza di Parigi catapultata in mezzo a degli sconosciuti nel cuore del cuore della Sicilia). Un problema che non sembrano essersi posti Giacomo Bendotti, Ilaria Macchia, Andrea Paolo Massara e lo stesso Messina.

La questione seria è: davvero si può scrivere una sceneggiatura a otto mani e venirsene fuori con uno script che deve aggrapparsi a un uso smodato del ralenti per riempire la durata di un lungometraggio? Perché, purtroppo, i frutti di questa scrittura a otto mani sono come le carrube, maturano e si seccano senza staccarsi dall'albero. E quella della carrube è solo una delle troppe metafore legate all'incapacità di elaborare il lutto, impastate di edipi irrisolti (l'insistenza sulle uova, su come legano proprio  con la farina delle stesse carrube, il cavo che tiene in vita il cellulare di Giuseppe percorso in tutta la sua lunghezza, a fior di camera) e equazioni cristologiche (il ritorno del figlio dovrebbe coincidere con la Pasqua) che rendono greve il progredire di una storia di per sé semplicissima e universale, per di più soffocata da un'eccesso di calligrafia, a servizio dell'enfasi di una produzione che evidentemente non poteva che puntare al concorso: ma la carruba, caduta troppo vicino all'albero, non ha avuto modo di sviluppare una pianta robusta.