Lo straordinario film di Zhao Liang

"Behemot"

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Filmare la realtà. Una realtà sconvolgente, terribile, vertiginosa. Ma farlo mediante una costruzione estrema, attraverso una messa in opera complessa e geometrica, curata sin nei minimi dettagli.

È su questo discrimine visivo che si regge l’ultima monumentale opera di Zhao Liang. Con Behemot il regista cinese dimostra di aver superato e reso del tutto superfluo il (già di per sé poco interessante) distinguo fra fiction e documentario. Perché questo racconto – della vita e soprattutto della morte – dei minatori che scavano oro e carbone nei giacimenti minerari al confine fra la Cina e la Mongolia, abbandona sin dalle prime inquadrature la volontà di diventare un documentario politico (pur non scordandosi mai di esserlo) e punta alla costruzione di un universo visivo che codifichi la realtà come qualcosa di astratto.

I tagli netti, evidenti, che rompono la linearità del nostro sguardo e frastagliano la profondità di campo – che notiamo sin da subito e che il regista opera su tutti i campi lunghissimi che inserisce nel film – stanno lì a dirci esattamente questo. Ovvero l'impossibilità di guardare il mondo con realismo, quando è il mondo stesso ad apparire trasfigurato. E laddove le miniere, i buchi, le voragini e le montagne sventrate non fanno più impressione e appaiono come spettacoli di una natura che, seppur violata, suscita uno scalpore molto contenuto, questi tagli nel campo dell’inquadratura, nella loro linearità e artificialità, restituiscono il senso di un mondo che si sbriciola e ci affonda sotto i piedi.

Lo si vede anche nella scelta narrativa (perché un racconto, seppur molto esile, tanto da assomigliare quasi a un commento, esiste): Zhao infatti rielabora il messaggio della Divina Commedia. Il procedere della storia (che una voce fuori campo inizia a raccontare citando l’incipit del poema dantesco) è quello di un viaggio che, partendo dagli inferi, intende giungere sino al Paradiso. E il protagonista, con la sua guida, che si trascina uno specchio sulle spalle, attraversa luoghi, paesaggi e città incontrando le anime di gente viva ma che sembra già defunta. Arrivando infine a scoprire che l’unico luogo disabitato e vuoto è proprio il Paradiso.

Tre momenti, come le tre cantiche, dividono il film: la prima introdotta dallo schermo nero ci porta fra i minatori che scavano l’oro; la seconda, dopo uno schermo che si tinge di rosso, presso gli operai che fondono l’acciaio; la terza, dopo una dominante di colore blu, mostra le sconcertanti conseguenze fisiche del lavoro nelle miniere di carbone. L’armonia dei colori, la scelta attenta e rigorosa delle cromie è quindi, per Zhao, un ulteriore dispositivo stilistico attraverso cui incanalare e modellare l’idea di racconto del reale che sta alla base di questo lavoro. 

La chiusura fra le città deserte della Cina settentrionale, laddove i palazzi sono ultimati, le strade finite e in perfette condizioni, e funzionano persino l’illuminazione e i semafori, ma dove non abita nessuno, è invece la messinscena di una grottesca contraddizione o di un assurdo paradosso. Zhao che sceglie questi posti per ambientarci il suo Paradiso lo identifica come la parte estrema e più alta di un medesimo corpo mostruoso. Il Behemoth del titolo, la colossale creatura della tradizione ebraica che sta distesa a fare scempio degli uomini e osserva con indifferenza ciò che la circonda. Un mostro che è in ultima analisi l’uomo stesso. Lo stesso uomo che compie il viaggio metaforico, quindi che penetra all’inferno e non riesce più a fare ritorno, né a giungere alle sfere celesti. Anche se quello che più sconcerta, e che il Virgilio del film testimonia molto bene, è che la creatura mostruosa non ha alcun avvertimento della propria esistenza e non riesce mai a vedere e riconoscere la propria immagine. Nemmeno quando questa è riflessa dallo specchio che ha di fronte.