"El clan" di Pablo Trapero

Una famiglia "normale"

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Seguendo la carriera di Pablo Trapero, dall’esordio di Mondo grua sino a Elefante blanco, si poteva avere l’impressione di una promessa non pienamente mantenuta, nonostante il grande talento del regista argentino.

Le prime prove – come il citato Mondo grua o come Familia rodante – restavano le migliori, con la loro narrazione picaresca, episodica, priva di conflitti forti, che seguiva le vicende ordinarie di personaggi medi, o mediocri, né buoni né cattivi. I film successivi, come Leonera o Carancho, hanno preferito un approccio differente, introducendo toni più accesi, ponendo i personaggi al centro di conflitti più netti, nei quali la violenza veniva a giocare un ruolo rilevante (e che talvolta rimandavano a strutture di genere – il film carcerario in Leonera, il noir urbano in Carancho). 

L’abilità registica – la capacità di dar ritmo alle sequenze con lunghi movimenti di macchina o con montaggi concitati – era indiscutibile, ma la costruzione dei film lasciava talvolta la sensazione di andare in troppe direzioni senza riuscire a dare alle storie un “centro” (le troppe sorprese del finale di Carancho, i toni patetico-sentimentali che affioravano in Elefante blanco, ecc.).

Può darsi che con El clan, Trapero abbia finalmente trovato la strada giusta: qui le sue doti registiche sono messe al servizio di una narrazione precisa, finalmente focalizzata intorno a un “centro” chiaro, e gli elementi “di genere” sono utilizzati per dar vita a una lettura non pretestuosa di un momento storico drammatico della storia argentina.

El clan è infatti un film teso, dal ritmo incalzante, di abilissima fattura (evidente in questo caso l’amore, che già emergeva in film come Carancho, per Scorsese), capace di raccontare un caso che, nella sua patologica anormalità, diventa emblematico del carattere violentemente autoritario di un regime (il “Proceso de Reorganización Nacional” argentino) e del tipo di relazioni sociali che un tale regime fomenta, e in una certa misura impone.

Al centro della vicenda è un caso reale, quello della famiglia Puccio: all’apparenza una normale famiglia della media borghesia argentina, in realtà protagonista di alcuni sequestri di persona finiti in tragedia. A capo del “clan” vi era Arquímedes Puccio, che dopo anni di attività in servizi segreti e gruppi paramilitari di “ultraderecha”, tra la fine della dittatura e i primi anni della democrazia si riciclò come sequestratore a scopo estorsivo.

Personaggio di granitica fissità, convinto fino alla fine della giustizia del proprio agire, Arquímedes è specchio di un regime che garantiva impunità a condotte fuori da ogni regola e che, anche dopo l’avvento della democrazia, ha lasciato scorie che a lungo hanno inquinato la società argentina. 

A interpretare (molto bene) il personaggio è Guillermo Francella, solitamente impegnato in ruolo comici (da cinepanettone, diremmo da noi). Trapero ribalta i suoi cliché, come se volesse duplicare nell’interprete la “doppiezza” del personaggio. Accanto al capofamiglia, ad interessare maggiormente Trapero è uno dei figli, Alex. Tormentato dai dubbi e in diversi momenti sul punto di prendere le distanze dal genitore, Alex rappresenta la difficoltà di dire “no” alle lusinghe e alla violenza di un regime autoritario e quindi introduce spunti di riflessione sull’innocenza, le connivenze e le responsabilità di parti della società argentina rispetto al regime militare.