Sopravvalutati e sottovalutati (3)

Dentro e fuori dalla storia

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SOPRAVVALUTATI

Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) di Pier Paolo Pasolini

L'ultima opera di Pasolini, trasfigurata in mito preveggente da parte della sinistra degli ultimi decenni, è in realtà un film che rende visibile la parabola di un intellettuale che ha sostituito il marxismo e i rapporti sociali prima con una critica morale al decadimento della piccola-borghesia (Teorema) e poi con un mero conflitto tra vita(lismo) e morte. Quella che doveva essere un'illuminante riflessione sul potere diventa allora una serie di scenette aberranti, più vicine alla banalità che allo sconcerto: il potere è solo odio dei corpi, odio della vita, odio della gioia del sesso. E così si esce dalla storia e si entra nel mito.

2001 Odissea nello spazio (2001: A Space Odissey, 1968) di Stanley Kubrick

La storia dell'uomo e del suo rapporto con la tecnica in una genealogia dal sapore heideggeriano che non può che finire con l'eterogenesi dei fini: cioè con la tecno-scienza che si rivolta contro chi l'ha creata. Con in più l'aggravante di un cinema che spinge programmaticamente (ancorché magnificamente) sui tasti della suggestione e dell'emotività pre-razionale. I film di Kubrick sono sempre dei "capolavori" e sempre "epocali" (e in effetti, lo sono davvero). A volte però non ci si accorge di quanto pericolosamente si vada vicino al confine con la megalomania.

Amarcord (1974) di Federico Fellini

Paradigma di un atteggiamento nei confronti del passato che filtra la storia con la nostalgia dell'autobiografismo. Si vorrebbe cercare la vena malinconica, in realtà si rischia di produrre semplicemente un effetto accomodante. Come in questo caso.

Una storia vera (A Straight Story, 1999) di David Lynch

Lynch gioca la carta del cinema dell'incanto, che sublima, ricompone, rassicura. Proprio lui che era riuscito meglio di ogni altro a far vedere che l'inquietudine più grande stava nell'incanto immaginario e non nel disincanto distruttivo. Sarebbe solo un esercizio di stile, se non fosse stato reso indigeribile da una quantità smodata di luoghi comuni sull'autenticità dell'America di provincia e da una poetica delle piccole cose irreparabilmente stucchevole. 

Underground (1995) di Emir Kusturica

Uno dei più grandi abbagli del Festival di Cannes per un film che sdogana e giustifica tutti i peggiori luoghi comuni sul conflitto jugoslavo e li dà in pasto allo sguardo multiculturalista burgeois dei festival europei. La fine che ha fatto Kusturica - estremista nazionalista serbo - ha dato ragione a chi già allora aveva visto nell'estetica di questo film un problema politico di non poco conto.

 

                                                                                                                                                                            Killer of Sheep

SOTTOVALUTATI

Vesyolye rebyata (Jolly Fellow1934) di Grigori Aleksandrov

Il cinema sovietico della stalinizzazione degli anni '30 viene spesso liquidato a fare da confronto negativo alle avanguardie degli anni Venti. Ci sono invece tantissime perle nascoste, come questo musical di Grigori Aleksandrov (già assistente di Ėjzenštejn ne La linea generale e in Ottobre) tutto basato su musiche jazz-swing e comicità slapstick che inaugurò la grande stagione dei musical sovietici degli anni Trenta e Quaranta. Fu anche il primo grande successo di Lyubov Orlova, la Judy Garland sovietica.

The Wire (2002-2008) di David Simon

Non è esattamente un'opera sottovalutata, dato che è stata - insieme a I Sopranos - il primo grande successo televisivo planetario targato HBO. Tuttavia la critica cinefila italiana, che è stata giustamente pronta ad apprezzare Boardwalk Empire e Breaking Bad, non mi pare abbia colto fino in fondo il valore - soprattutto politico - di questa incredibile (e in questa forma probabilmente irripetibile) serie televisiva. The Wire, 60 puntate da un'ora per un totale di cinque stagioni, è una delle più lucide e dirompenti riflessioni sull'America contemporanea che sia stata fatta negli ultimi vent'anni, cinema compreso. Scordatevi psicologismi e personaggi principali, qui si coglie delle città contemporanee la dimensione strutturale e il complesso intreccio di rapporti sociali che vanno dall'alta finanza agli spacciatori di quartiere. L'anti-climax al termine della prima serie - dove le responsabilità personali vengono sciolte nell'interezza della società - è un vero e proprio manifesto politico di rara lucidità.

Immensee (1943) di Veit Harlan

Uno dei grandi melò tedeschi degli anni Quaranta, da parte di uno dei registi politicamente più ambigui del Terzo Reich. Negli ultimi anni molti hanno riscoperto dello stesso regista il più famoso Opfergang dell'anno successivo; tuttavia Immensee che lo precede e che ne ricalca per la gran parte la trama (tant'è che molti lo considerano un film preparatorio di Opfergang) risulta persino più sorprendente, soprattutto in un colpo di scena finale che lascia a dir poco sconcertati. Ci sono tutti i grandi temi del cinema di Harlan: il sacrificio, il conflitto città-campagna, l'impossibilità dei rapporti tra uomini e donne.

Killer of Sheep (1977) di Charles Burnett

Uno dei più grandi film sulla città di Los Angeles. Non su Hollywood o sui quartieri delle colline che sempre compaiono nel cinema americano, ma su quelli semi-invisibili del sud della città: Watts, Compton, Inglewood, South Central, abitati quasi esclusivamente dal sottoproletariato black della città. È questo vero e proprio cinema di classe: non solo nel contenuto, ma anche nella forma, dato che strizza l'occhio più al neorealismo che alla blaxploitation che allora andava di moda e che riduceva la cultura black a una caricatura inoffensiva.

Funny People (2009) di Judd Apatow

Chi segue la scena degli stand-up comedians americani conosce i livelli di riflessione e profondità sul comico che sono stati raggiunti da gente come Louis C.K. negli ultimi anni. In Funny People Judd Apatow fa una cosa simile la cui importanza non è stata fino in fondo compresa: prende il "joke", lo toglie dal rango di mero divertissement e lo eleva al livello speculativo. Funny People, che ci mostra uno stand-up comedian di mezza età a cui viene diagnosticata una malattia mortale, è pieno di barzellette che hanno un contro-campo di gente che non ride. Perché il comico - come sapeva bene Lubitsch - è una faccenda maledettamente seria.

 

Sopravvalutati e sottovalutati. Re-visioni critiche che pescano in libertà nella storia del cinema, per mettere in discussione qualche mito e per segnalare alcuni film che meriterebbero più attenzione (e devozione?). Si gioca sul serio, come sempre. Dieci film per ognuno.