Sopravvalutati e sottovalutati (4)

Lacrime, baci e tute blu

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SOPRAVVALUTATI

Il silenzio degli innocenti (The Silence of the Lambs, 1991) di Jonathan Demme

Elevato quasi unanimemente a capolavoro degli anni Novanta. Chi scrive continua a trovarlo un buon prodotto, certo, ma non tale da figurare tra le opere fondamentali per l’immaginario visivo collettivo (quelle di Coppola, Carpenter, Friedkin) e/o della decodifica narrativa del genere cinematografico tout court (Altman, Landis, Tarantino). C’è chi da sempre si esalta rabbrividendo al suono digrignante di Hannibal “The Cannibal”,  ma è meglio il Demme intimista (Philadelphia), quando non più genuinamente mélo (Rachel sta per sposarsi).

Le lacrime amare di Petra Von Kant (Die Bitteren Tränen der Petra von Kant, 1972) di Rainer Werner Fassbinder

Trattasi di scelta azzardata. Ma per quanto ami Fassbinder, questo è probabilmente il solo titolo davanti al quale nutro delle perplessità. Un kammerspiel, sì, ma i tempi sono troppo dilatati e teatraleggianti per avvincere in pieno. E nel melodramma, l’autore de Il matrimonio di Maria Braun sovente riusciva ad essere più coinvolgente (La paura mangia l'anima, Martha).

Rosa L. (Die Geduld der Rosa, 1986) di Margarethe von Trotta

La vita difficile di uno dei protagonisti della sinistra europea del primo Novecento, è praticamente uno sceneggiato di due ore che tenta di condensare, assai a fatica, i tanti aspetti di un personaggio scomodo e problematico. Lodevole l’intenzione, encomiabile l’interpretazione della Sukowa, ma la carne al fuoco (che comprende anche il punto di vista dell’autrice) è troppa per non indurre lo spettatore a guardare l’orologio.

L’ultimo bacio (2001) di Gabriele Muccino

Come se non ne avessimo già abbastanza delle pellicole sulle crisi dei trentenni. Ma quello che in Salvatores – autore sopravvalutato a sua volta – era riscattato da una vena di malinconica spavalderia, qui diventa fiction televisiva furbescamente velata. E il sempre più celere mutamento dei tempi ha finito per inghiottire lo stesso Muccino, come comprovano i recenti insuccessi made in USA. Bella davvero solo la title track di Carmen Consoli.

Il cielo sopra Berlino (Der Himmel über Berlin, 1987) di Wim Wenders

La filmografia wendersiana apre un nuovo capitolo, di carattere prettamente esistenziale. L’apologo onirico, teso a fare il punto sulle inquietudini anni Novanta e oltre, benché puntellato di favolistici momenti, retrocede verso un’autoreferenzialità dalla quale Wenders non riesce ad uscire. Il successivo cammino – intrapreso con Fino alla fine del mondo, proseguito con Al di là delle nuvole e il secondo capitolo dedicato alla figura dell’angelo, Così lontano, così vicino – dimostra che nemmeno lo desidera. Forse.

 

SOTTOVALUTATI

Tuta blu (Blue Collar, 1978) di Paul Schrader

Sindacato e manodopera: due sguardi contrari di un’identica ipocrisia. Come di un identico conflitto. E in un clima tanto teso, gli antichi scontri alla radice (di classe o razziali) sono sempre pronti a emergere. In una delle pellicole più aritmetiche dedicate alla condizione operaia, già cova l’intero zeitgeist schraderiano con tutti i suoi spettri.

I ragazzi del coro (The Choirboys, 1977) di Robert Aldrich

La dura vita degli sbirri di pattuglia, all’uopo esorcizzata da sfottò da casermone e una pesante goliardia in stile Porky’s. Che bruscamente vira verso il tragico e si conclude con un’ennesima beffa contro tutti e tutto, che racchiude il senso dell'intero film. E la politique del suo regista. Un Aldrich 100%, generalmente poco amato e fermamente misconosciuto dallo stesso Joe Wambaugh, dal quale è tratto.

Yuppi du (1974) di Adriano Celentano

Per chi, tuttora, sottostima le qualità artistico-istrioniche del Molleggiato sul grande schermo. Per quanti, insomma, serbano del Re degli Ignoranti un’immagine cinematograficamente distorta. A suo modo un’opera misteriosa, sottovalutata a prescindere. Un’opera “rock”, di fronte alla quale il resto della produzione celentaniana appare inevitabilmente “lenta”. Diffidare dell'edizione in dvd distribuita nel 2008.

Il re dei Giardini di Marvin (The King of Marvin Gardens, 1972) di Bob Rafelson

Due fratelli, diversissimi e distanti, tuttavia legati. Il loro tormentato rapporto sullo sfondo fatiscente, grigio e invernale, di un’Atlantic City finta Mecca dell'American Dream. Uscito troppo in anticipo (in Italia si è visto solo un lustro dopo), è, insieme a Salvate la tigre di Avildsen, la concettuale ecatombe della New Hollywood. La migliore pellicola di Rafelson.

Out of the Blue (1980) di Dennis Hopper

Ritratto di un’America (e di un’istituzione familiare) marcia alla radice, condannata a un’inarrestabile deriva e, in ogni senso, a un’esplosiva dipartita. Un piccolo grande film “malato”, pessimamente distribuito in home video, col ridicolo titolo Snack Bar Blues, e mai editato in dvd. Rimosso dalla memoria collettiva come la sua protagonista, la malickiana Linda Manz. Meravigliosa colonna sonora di Neil Young.

 

Sopravvalutati e sottovalutati. Re-visioni critiche che pescano in libertà nella storia del cinema, per mettere in discussione qualche mito e per segnalare alcuni film che meriterebbero più attenzione (e devozione?). Si gioca sul serio, come sempre. Dieci film per ognuno.