INTERVISTE

interview top image

Conversazione con Gianni Amelio, estratto da Micromega

Questo è un estratto della conversazione tra Gianni Amelio e Fabrizio Tassi pubblicata sull'Almanacco del Cinema di Micromega, che può essere acquistato in edicola o in libreria. Amelio in questa lunga intervista parla della sua storia di ragazzo del Sud arrivato a Roma per fare cinema, racconta i suoi film, ma anche quelli che ha amato da spettatore. Nelle sue parole si trovano riferimenti mai banali all'ultimo Fellini e al primo Bertolucci, a Godard e Mizoguchi, a Hollywood e al Neorealismo, ai registi che si nascondono e a quelli che si esibiscono.

UNA VITA AL POLITEAMA - Gianni Amelio in conversazione con 
Fabrizio Tassi (estratto da MicroMega 9/2016 - Almanacco del Cinema)
Nascita di uno scrittore

Cominciamo dalla fine, come fa Amelio quando immagina i suoi film. Parliamo di uno dei più importanti registi italiani che diventa romanziere esordiente. Un caso? Una necessità?
Curioso che il titolo del primo romanzo di un regista abbia il nome di un cinema. Politeama viene dal greco ed è «il luogo della città dove avviene lo spettacolo». Il primo cinema dove ho messo piede si chiamava Politeama. Io non torno più nella mia città perché quel cinema non esiste più. Lo hanno raso al suolo e al suo posto hanno costruito una megastruttura di tremila posti per fare quelli che oggi chiamano «eventi», non più «spettacoli». Politeama vale più di tutta la mia esperienza cinematografica. Io darei tutti i film che ho fatto per Politeama. Ma non perché dal punto di vista del risultato estetico sia superiore ai film. È perché qui sono andato oltre. E ho avuto la conferma che lavorare da solo non è un peso, ma qualche volta una liberazione. Si dice che il cinema sia bello perché è un lavoro di gruppo: ti libera dalla solitudine e ti toglie quella che gli scrittori chiamano «panico da pagina bianca». Pare quasi che sia una festa. Per me non lo è. Per me è fonte di ansia, da sempre. Arrivo la mattina e ho intorno dalle trenta alle cento persone, e a ognuno devo saper dire la cosa giusta, sono obbligato a dire la cosa giusta.

Ma non c’è anche il piacere, il gusto di governare una macchina così complessa?
Io detesto il comando. Lo esercito, devo esercitarlo, ho imparato a farlo, ma non mi piace moralmente. Io non amo le categorie, figuriamoci se amo le gerarchie. Fare quello che dà ordini e che pretende che siano rispettati non è il mio modo di essere. Di conseguenza, vivo la lavorazione di ogni film come un dovere che mi è capitato e che devo svolgere fino in fondo. Ma mi pesa molto. All’inizio mi pesava fino alla nevrosi, fino a togliermi la capacità di fare altro. Non mangiavo, addirittura. Quando ho girato Colpire al cuore sono dimagrito quindici chili.

Immagino che questa fatica, però, si sia attenuata nel tempo.
Questo sì, ovviamente. Ho ricevuto il più bel complimento mentre giravo L’intrepido, quando un capomacchinista mi ha detto: «Me pari Monicelli». Perché Mario Monicelli, mio nume e amato amico, aveva fin dai suoi esordi una capacità di estraniarsi dai problemi, pur essendoci dentro. Tutto gli arrivava apparentemente in modo quieto. Anche se ho sempre sospettato che Mario recitasse una parte: la parte di Monicelli l’ha recitata alla perfezione fino alla fine. Ma il complimento era davvero bello e calzante. Anche perché quel capomacchinista mi conosceva da una ventina d’anni.

Quindi era il testimone di una trasformazione.
Arrivata troppo tardi. Io condivido l’affermazione di Nanni Moretti e la ripeto anche al Centro sperimentale di cinematografia dove insegno: «Guai a chi dice alla fine di una giornata o alla fine di un film: quanto mi sono divertito!». Vuol dire che ha sbagliato tutto.

Detto così, sembra che arrivare al libro, al lavoro solitario davanti a un computer, sia quasi una fuga da qualcosa, piuttosto che un punto di arrivo.
No, è certamente un punto di arrivo. Avendo cominciato giovanissimo e per gradi, sapevo che comunque, nonostante il peso delle cose, sarei riuscito a governare il set di un film. Mentre non ero così sicuro di riuscire a governare me stesso al lavoro da solo mentre scrivevo un libro. Ce l’avrei fatta a gestire una troupe di sessanta persone, soffrendo come un cane. Al contrario mi dicevo: se mi metto davanti al computer, lo spegnerò dopo un giorno di angoscia guardando lo schermo bianco. Invece ce l’ho fatta. E senza sforzo. Ce l’ho fatta con felicità e libertà.

È anche per questo che nel libro c’è dentro tanto di te? O meglio, una parte importante di te?
C’è lo spirito, non la lettera. Per me è fondamentale l’esergo del libro, tratto da Mark Twain: «Eravamo gemelli. Da piccoli, uno dei due è annegato. Ma non ho mai saputo se era lui o se ero io». Non concepisco i romanzi senza esergo. Un scrittore italiano che sta in cima alle mie predilezioni, Arbasino, fin dall’Anonimo lombardo, ha fatto degli esergo parte integrante del testo.

L’impressione è che in Politeama tu abbia fatto con il linguaggio, la parola, lo stesso lavoro che hai sempre portato avanti con la macchina da presa. La ricerca della massima semplicità, la sostanza invece dell’apparenza, il fastidio per il «bel movimento». Non c’è l’esibizione di qualcosa a cui vuoi arrivare, ma l’attesa di qualcosa che poi accade durante la scrittura.
È vero. Ho avuto sempre la volontà di togliere, mai di aggiungere. Il mio credo coincide con ciò che dicevano i grandi americani nell’epoca cosiddetta d’oro: la macchina da presa è meglio che non si senta. Più la macchina da presa è discreta e più importanza dà a quello che inquadra. Mentre poi il cinema si è trasformato in un occhio molto personale ed esibito. Se uno volesse datare questa presenza voluta della macchina da presa, si potrebbe parlare della fine degli anni Cinquanta, dell’occhio della Nouvelle vague. Non solo di Godard, ma di tutti, anche di quelli che hanno fatto una finta Nouvelle vague, che si sono mascherati da giovani e in realtà non lo erano. Perché la Nouvelle vague è importante dentro, non solo nella «sgrammaticatura» dei vecchi sistemi di montaggio.