INTERVISTE

interview top image

Intervista a Pedro Cabeleira

In Verão danado si ha l’impressione di essere in un costante presente. L’uso che fai del tempo, estremamente consapevole ma assai naturale, permette di cogliere una sorta di espansione dell’istante, del qui e ora, quasi a cancellare passato e futuro. E non parlo tanto di un’esperienza intellettuale, che viene elaborata successivamente, ma di una sensazione fisica, la percezione del tempo che non scorre, ma si espande…

In realtà ho cercato di fare in modo che tutto avvenisse in maniera naturale, senza prevedere all’inizio una costruzione del tempo specifica. Giravamo le scene più o meno come fossero degli happening, dunque la durata poteva cambiare. A ogni modo avevo e ho la consapevolezza che il tempo non possa essere solamente quello che calcoliamo con un orologio. Per me questo film è anche una sorta di mémoire, e sai bene che un ricordo ha sempre una durata diversa da quella reale del fatto accaduto. Per riuscire a mettere in pratica questa specie di dilatazione temporale non ho attinto solamente dal mio vissuto e dalle esperienze con i miei amici, ma anche dalla letteratura. Da un parte ho cercato di non lasciarmi condizionare dal cinema che avevo visto e amato, volevo cercare di fare qualcosa che fosse il più personale possibile, anche visivamente; dall’altra ho pensato moltissimo a due autori che amo molto, David Foster Wallace e Thomas Pynchon. Se prendiamo Vizio di forma, ad esempio, e pensiamo al suo protagonista, Doc Sportello, non riusciremmo a immaginarlo vivere in un tempo preciso e compiuto. Quello che vive e soprattutto quello che ricorda ha un tempo dilatato. E non solo per l’uso di sostanze, ma per il lavoro che fa sui ricordi e la memoria. Di conseguenza sul tempo. È un modo di non vivere o intendere il tempo in maniera schematica. Un po’ come quando ti domandi che giorno sia oggi. È venerdì e tu credi sia martedì (ride). E ne sei proprio convinto. «No, è martedì!», insisti, «non può essere venerdì». A me capita…

Anche a me…

Ecco, appunto. E questo non significa essere distratti riguardo a ciò che stiamo vivendo o che sta accadendo, ma magari in quel momento, proprio per quello che ci sta accadendo, sapere che è giovedì o lunedì, che è l’una di notte o sono le tre, non è così importante. Non è la cosa più importante. Non in quel momento. Per esempio nel film non è chiaro quanto tempo sia passato tra l’incontro di Chico con Maria, la ragazza che vuole partire per Londra, e la mattinata che il protagonista passa al parco con l’amico, prima di andare a fare il colloquio di lavoro al ristornate. Colloquio che, tra l’altro, non sappiamo se farà o meno. La cosa importante per lui, quello che lo marca, per lo meno in quel momento, e che si espande nella sua memoria, e si espande anche nel presente del film, è l’incontro con Maria. Sono episodi che avvengono nel corso di un’estate e che lui trattiene e vive in maniera profonda, senza che lo sviluppo del tempo sia “reale”. Magari certi momenti prendono più tempo nella sua vita rispetto a altri per lui meno significativi, e dunque possiamo tranquillamente avere dei salti temporali, dei vuoti nell’ordine cronologico del tempo. È un tempo psicologico, emotivo.

Nel flusso di parole e di pensieri dei personaggi, che spesso hanno un senso solo se riportati nel contesto delle situazioni che vivono, il tuo film sembra trovare una forma e una pienezza. Tutto si tiene, in maniera profonda. E davvero sembra un’opera multiforme di Pynchon o Bolaño…

O di Wallace. Pensa Infinite Jest. Io non ho mai letto nulla del genere e mi ha totalmente sconvolto. Per me è un lavoro sulla semplicità e sulla naturalezza della percezione. Mi spiego meglio. Ovviamente leggendolo ti rendi conto che chi lo ha scritto aveva un’intelligenza fuori dal comune, eppure Wallace riesce a rendere con estrema semplicità la percezione naturale e umana del tempo. Quella della quale tutti noi abbiamo esperienza quotidiana ma che è estremamente difficile da rendere per ciò che è, senza costruzioni. Anche al cinema, una delle cose più difficili da ottenere non è tanto il naturalismo di una scena (scenografia, recitazione, luce…), ma rendere naturale la percezione del tempo in quella scena.

E come hai cercato di realizzare questo elemento fondamentale per il tuo film?

Tornando a Wallace, mi ricordo di un capitolo in cui ci sono dei ragazzi che vanno a lezione di tennis, stanno pranzando e parlano del più e del meno. A un certo punto uno di loro tenta di ricordare qualcosa. E al contrario di quello che farebbe probabilmente qualsiasi altro scrittore, Wallace non descrive la scena ma lo sforzo di questo personaggio di ricordare. In realtà quello che sta raccontando è il tempo che scorre, con una serie di dettagli che permettono a chi legge di percepire esattamente la maniera in cui il tempo passa e dunque si espande, poiché tu sei concentrato a ricordare il nome di qualcosa che non ti viene in mente. E infatti, a metà capitolo, esattamente come succede nella vita di tutti i giorni: «era questo!», cioè la cosa di cui voleva ricordarsi eccola, gli è venuta in mente improvvisamente, dopo uno sforzo di concentrazione. Ciò che è importante non è tanto la cosa che gli è tornata in mente e nemmeno i pensieri attorno alla cosa, ma il tempo impiegato per arrivare a quel ricordo. La percezione del tempo. E io ho pensato a questo nella scena in cui Chico è al parco col suo amico, che è una scena a cui tengo molto. Anche lì per me si tratta del tempo che scorre. Iniziano a parlare di un argomento. E poi, hop, passano a un altro argomento. E poi, hop, a un altro ancora. E sono seduti uno di fronte all’altro. E poi uno è seduto per terra e l’altro è sdraiato sulla panchina e per poco, vista la posizione, non gli infila un piede in bocca. E poi il tempo è passato. E i due, che nel frattempo hanno fumato, sono “fatti”. E quello che si sono detti, così come il tempo trascorso assieme, è stato importante, anche se i due lo hanno sicuramente percepito in maniera differente. E poi c’è il colloquio di lavoro, di cui Chico si era dimenticato, o meglio, si era concentrato su altro senza rendersi conto del tempo che passava. Allora i due prendono il tram, e forse ci vanno al colloquio. O forse no. Ma non è questa la cosa rilevante.

Il fatto che nel film nessuno o quasi dei ragazzi protagonisti faccia sforzi per trovare un lavoro, non è forse legato al sapere che tanto il lavoro non cambierà le loro vite e soprattutto che la crisi economica non si è ancora conclusa?

Non ho pensato direttamente alla crisi, ma soprattutto alla mancanza di motivazioni successiva o addirittura contemporanea al percorso scolastico. È molto frequente in Portogallo essere al secondo anno di studi all’università, dopo aver intrapreso un certo ambito, magari anche con convinzione, e capire piuttosto alla svelta, anche prima della laurea, che non hai molte possibilità di fare il lavoro per il quale ti stai formando… Diventa perciò molto chiaro perché finisci gli studi sempre più demotivato, con meno voglia, con meno entusiasmo. Per cui i ragazzi del film non sono depressi per quel che riguarda la loro vita privata, ma per quel che riguarda il loro futuro lavorativo. A ogni modo non credo di aver fatto un film triste o deprimente. Lo spero, almeno.

Al contrario, Verão danado è un film vitalissimo, vivace, pieno di desiderio…

Per me questo è un film su un gruppo di persone che vivono un momento di passaggio, durante il quale si rendono conto che le loro aspettative, i loro desideri verranno frustrati, passando dal periodo dello studio a quello del lavoro. La mia generazione, o almeno la maggioranza di essa, non ha la stessa percezione di sé stessa, gli stessi sogni di quelle precedenti. Ciò di cui i personaggi parlano sono soprattutto progetti, propositi per l’avvenire, non veri lavori che permettono di mantenersi. Ho preferito però che il film mostrasse soprattutto il rapporto tra i vari personaggi, il desiderio, l’amicizia e l’amore tra di loro e non l’inquietudine per il futuro o per il lavoro mancato. Volevo fosse un film sulla vita, che fosse vivo.

E sulla musica, ovviamente. Penso per esempio all’uso che fai di una celebre canzone portoghese, Canção do Engate di António Variações, che sembra descrivere quello che sta accadendo a due ragazzi mentre ballano…

Sì, in un certo senso è così. Inoltre adoro quella canzone e adoro tutto quello che ha scritto António Variações. Era un poeta ma anche un riferimento. Inoltre amo moltissimo chi riesce a trovare una profondità estrema in cose semplicissime. António Variações faceva musica molto popolare, non musica colta. È stato un poeta e un cantautore popolare. Inoltre è davvero “portoghese”, dell’interno del Paese, vedi il suo modo di dire le cose… Canção do Engate è una canzone che conosco da quando ero bambino. È assai nota. I miei genitori l’ascoltavano. Per me era importante usarla in quel momento poiché quel momento è quello che Chico tratterrà con sé, che gli appartiene completamente, che ricorderà. Per me questo è il momento più importante del film, questi due o tre minuti con la canzone di António Variações, Chico e Maria che si guardano negli occhi, ballano. Questa è la vera essenza del film. Due persone che aspettano tutta la loro vita fino a quel momento, ventidue, ventitré anni, per arrivare a quel tipo di empatia, di vicinanza, di pienezza e in un momento così quella è per me la canzone che vorresti ascoltare. Da lì in poi il film avrebbe potuto diventare un film attorno a una storia d’amore, loro due avrebbero che so, in seguito, potuto sposarsi, avere dei figli, avere una vita soddisfacente. E invece no. Non sempre la vita è un romanzo rosa. Non lo è quasi mai. E infatti lei se ne va. Magari sarebbe stato un film migliore se fosse stato sulla storia d’amore tra loro due. (Ride) O magari no. A ogni modo avranno sempre quella notte.

Tutto questo mi ricorda La scampagnata di Jean Renoir. L’hai visto?

Purtroppo no, ma pensavo piuttosto a Il piacere di Ophüls, in particolare all’episodio in cui una tenutaria di un bordello e le altre prostitute vanno in campagna e sono in contatto con la natura e tra loro si parlano, si crea una grande empatia, è un momento di una bellezza straordinaria, e finalmente, per quel pomeriggio, si sentono bene. Poi però devono tornare. Ma quel pomeriggio probabilmente è tra gli istanti più importanti della loro vita. Per me ci sono davvero alcuni momenti che sono assai più importanti di due o tre anni interi. Sono fissati nella tua memoria. È anche per questo che il tempo in Verão danado è strutturato in questo modo. Perché come nella vita ci sono istanti di grande intensità e che prendono molto spazio della tua esistenza e della tua memoria, sono ricchi di dettagli e altri dimenticabilissimi, senza interesse, a causa della monotonia, della noia. Per questo amo Wallace. Per come ti fa sentire il tempo che scorre, anche nella monotonia, ma lo fa in maniera davvero naturale.

A proposito di tempo, usi molto il piano sequenza. Penso alle scene della cena e della festa. A quelle del parco. E lo fai nel modo più naturale possibile.

Quando abbiamo iniziato a girare, ogni ripresa veniva fatta dall’inizio alla fine della scena, la conteneva completamente. Cercavo di trovare il modo di essere vicino ai personaggi, dentro la scena, e di includere più dettagli possibili. Per esempio nella scena della festa per me era importante essere con loro, tra di loro, “dentro” alla festa. Non poteva essere fatta altrimenti. Ma ovviamente per muovermi in quel modo e con una certa naturalezza avevo bisogno di usare, per esempio, il travelling. Inoltre per fare in modo che anche lo spettatore si sentisse parte della festa, da un lato dovevo essere a fianco dei protagonisti, di seguirli nei loro movimenti, dall’altro dovevo comportarmi anch’io come uno dei tanti presenti e dunque decidere di spostarmi e muovermi in maniera indipendente agli altri, come quando sei appunto a una festa e inizi a muoverti, a guardarti in giro. Anche per la scena della partita di calcio avevo fatto delle riprese molto lunghe ma con il calcio non funziona perché i movimenti dei giocatori e della palla sono molto rapidi e le azioni spezzate. Dunque ho dovuto lavorare molto sul montaggio. In ogni caso lavorare in questa maniera per me è stato anche un modo per sentirmi davvero presente in quello che accadeva. Per esempio, io faccio una gran fatica a girare un film restando seduto davanti al monitor. Anche se alla scuola di cinema ti insegnano a trovare una giusta distanza, a non essere troppo nella scena, nel dettaglio, sennò perdi l’insieme, io non riuscivo a lavorare così. Per cui, certo, ogni tanto controllavo qualcosa nel monitor, ma la maggior parte del tempo ero con l’operatore, al suo fianco, all’interno della scena per dare indicazioni.

L’impressione è che Chico e i suoi amici non possano arrestare il movimento. La fine all’interno della festa, che io trovo bellissima, ha questo brano in cui a un certo punto la musica si arresta e si sente una voce che sembra ancora una volta raccontare ciò che accade nel film, e a un certo punto nel testo c’è questa frase, «Moving as in a trance, destination did not matter», che mi sembra renda bene l’idea…

Il brano è di Mr. G che io ascoltavo spessissimo durante il montaggio della scena della festa, che inizialmente durava settanta minuti. Finché non mi sono imbattuto in questo brano, con questa voce che sembra quasi profetica e effettivamente racconta quello che succede. E ho trovato il modo di terminare il film. Ci sono circa dieci secondi di silenzio tra la musica e l’inizio del testo recitato da questa voce. Per me quel silenzio significa qualcosa che ha a che fare con un senso di libertà, di liberazione. Certo c’è la musica, c’è la danza, e attraverso di loro ti liberi, ma c’è anche il silenzio. E quel momento è anche un momento di grande profondità per il protagonista, di coscienza. La profondità non ha solo a che fare con un processo intellettuale, ma ha anche a che fare con i sentimenti, col sentire, coi sensi. L’intelligenza e la sensibilità non sono legati solo alla cultura, al saper dare delle letture analitiche e intellettuali, anche se, certo, lo facciamo, ma a qualcosa di più umano, semplice e profondo. Essere amico di qualcuno non significa solo fare grandi discorsi coltissimi, è qualcosa di fisico, di chimico. Ha a che fare con l’empatia. Io sono felice di guardare negli occhi quella persona. Sono felice. E non ho bisogno di spiegare perché. Quando desideri qualcuno o ami qualcuno, non hai bisogno di spiegare perché. Succede e basta. E ti senti riempito e appagato da questo sentimento. Per me Verão danado doveva contenere questa sensazione.