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Intervista ad Alain Guiraudie

Ancora più che nei suoi film precedenti, il corpo è uno dei protagonisti di Lo sconosciuto del lago. Il corpo nella sua diversità: non soltanto la fisicità seducente e armoniosa di Franck e Michel ma anche la pancia gonfia di Henri, la calvizie di un amante occasionale di Franck...
Sì, è anche una questione di gusto personale: non sono interessato in modo particolare ai corpi muscolosi e quelli dei culturisti mi fanno orrore. Mi piace vedere in un film, come accadeva negli anni '70, anche uomini e donne che hanno una fisicità irregolare, con delle imperfezioni comuni.
Inoltre mi interessa la vita intima di personaggi che non appartengono alla borghesia e non vivono in città. Di norma, nei film mainstream di oggi, i personaggi di questo tipo non hanno diritto alla sensualità, sono relegati sullo sfondo e alle note di 'colore': io invece volevo proprio mostrare l'erotismo di corpi diversi da quelli convenzionali. Condivido con Pasolini un sentimento verso il proletariato, chiamiamola tenerezza: è una posizione che oggi ha anche un significato politico.
Certo, nello Sconosciuto del lago, i due protagonisti principali, Franck (Pierre Deladonchamps) e Michel (Christophe Paou) sono belli, attraenti. Se non avessi scelto loro, il film non avrebbe funzionato. Però oltre alla loro bellezza, c'è dell'altro: Franck è nervoso, inquieto, esprime un'angoscia a fior di pelle, anche solo con gli sguardi. Michel invece, anche quando sorride, anzi soprattutto allora, emana qualcosa di inquietante. Il suo sguardo non è mai del tutto rassicurante.

I corpi sono mostrati nell'intimità dei preliminari e del coito con una naturalezza e una reale spregiudicatezza che trascende completamente il banale voyeurismo del cinema hardcore
Volevo legare il sesso, gli organi sessuali alla passionalità amorosa, agli slanci sentimentali, alla pienezza del sentimento d'amore che ovviamente comprende anche la sessualità e il linguaggio fisico dell'erotismo, mentre normalmente nel cinema il sesso è confinato nella pornografia, è uno spettacolo laido e ammiccante. Insomma volevo restituire il valore estetico - non estetizzante - al sesso anche al cinema, come accadeva negli anni '70. Perfino il cinema pornografico di quell'epoca aveva preoccupazioni estetiche che ha perduto presto, scadendo nella performance, nell'exploit atletico o ginecologico. 

Deuteragonista del film è la natura dell'unico luogo dove si svolge l'azione: il lago, la spiaggia e il bosco. Nei film precedenti, lei mostrava ambienti diversi, qui invece ha concentrato la storia in un unico spazio
Nei miei primi film avevo girato in luoghi diversi e mi rimaneva sempre l'insoddisfazione di non avere sfruttato fino in fondo la natura e la complessità degli spazi. Stavolta volevo raccontare una storia complessa ma in modo semplice, adottando un dispositivo che è molto legato alla tragedia. È legato anche alla mitologia, al mito: un grande lago, il rituale delle attese, degli incontri dove scatta il desiderio e l'appartarsi nel bosco, la leggenda – anche ironica - di un pesce siluro, i sassi, l'acqua... Volevo esplorare questo spazio in ogni suo aspetto: il parcheggio, il bosco, la spiaggia. Ho evitato anche che apparissero i soliti oggetti di oggi, come i telefonini, così che la temporalità sembrasse sospesa, incerta. È tutto concreto, fisicamente presente, trapela anche qualche informazione sull'esistenza che i personaggi vivono al di fuori delle vacanze, ma rimane un ampio margine di indeterminatezza, in particolare rispetto all'epoca in cui si svolge.

Uno dei motivi di fascino del film è la tinta noir che assume all'improvviso ma senza diventare un noir a tutti gli effetti
Sì, non ho concepito il film come un thriller. Il cinema di Hitchcock, La finestra sul cortile in particolare ma anche altri suoi film, hanno avuto un'enorme influenza su di me. Volevo realizzare un film dominato da una crescente inquietudine e angoscia ma dove l'azione fosse ridotta al minimo e comunque non prevaricasse sull'atmosfera. In genere nei film neri, l'inquietudine e l'angoscia sono climi preparatori che poi vengono sommersi dalle dinamiche del thriller. Io invece volevo  che predominasse e perdurasse l'angoscia, che si mescola a tratti con l'umorismo.
Era una scelta già prevista nella sceneggiatura, ma durante il montaggio ho inserito delle inquadrature sulle colline, gli alberi, il cielo, le acque del lago, che erano state girate come possibili inquadrature di raccordo e invece hanno lo scopo di addensare, di accentuare il clima di incertezza e ansia. Un film fondamentalmente si scrive al montaggio. Credo che queste immagini, per tutte le reminiscenze fiabesche che possono evocare, insinuino anche una tonalità fantastica, onirica, conferendo un respiro diverso al film. Infatti, fin dall'inizio di questo progetto, volevo prendere la materia della  realtà così com'è e farla scivolare verso il fantastico. Ma c'erano cose che non avrei potuto scrivere. Le ho trovate sul posto.

Nel film è magnifica anche la luce, che cambia e condiziona il respiro delle scene
Non ero contento della luce nei miei primi film, di come avevo realizzato l'effetto notte, per esempio. Avevo l'impressione che la natura fosse bella dal vivo, ma quando la filmavo, risultava qualcosa di artificioso, che mi lasciava insoddisfatto. Volevo lavorare la luce naturale senza tecnici, senza parco lampade, senza luce elettrica. La luce naturale è molto ricca di gradazioni e sfumature: per esempio esiste una differenza notevole fra inizio crepuscolo e crepuscolo vero e proprio.
Per Lo sconosciuto del lago ho impostato il piano di lavoro in funzione della luce, per catturarne gradazioni differenti. Tutta la sequenza finale non è stata girata in continuità ma a frammenti, montati insieme successivamente. Mi avevano colpito molto due film recenti: Jiabiangou (Il fossato, 2010) di Wang Bing, per la sua luce molto sensuale, e Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti (2010) di Weerasethakul, per un'inquadratura dove, intorno al rosso degli occhi del fantasma, si distinguono i contorni di un corpo. Quell'immagine mi ha ipnotizzato. È il primo film dove ho voluto un apporto importante da parte dei collaboratori, che hanno firmato la direzione artistica, Roy Genty, François Labarthe e Laurent Lunetta.

Lo sconosciuto del lago è stato etichettato da più parti come “un film gay”, “un film queer”. Non le sembra un po' limitativo?
Non voglio che lo si riduca ad un film gay
perché per me era importante parlare di desiderio in generale. Il desiderio che racconto nel mio film riguarda due uomini ma non volevo parlare solo del desiderio omosessuale. Alcune dinamiche che descrivo possono valere benissimo anche per l'eros eterosessuale. Il cinema gay, poi, non è più un genere. È finita quell'epoca degli anni '70 in cui aveva un senso sbandierare certe appartenenze. Ma certo, è evidente che il film rispecchia un'identità sessuale, una sensibilità e una cultura che non appartengono al mondo eterosessuale. L'amore omosessuale non è lo stesso di quello eterosessuale: c'è una questione di equilibri diversi. Il rapporto fra personaggi come Henri e Franck non sarebbe lo stesso se uno dei due fosse una donna. Non potrebbe mai essere lo stesso.

La versione integrale dell'intervista uscirà sulla rivista “Cineforum”

(Intervista realizzata il 26 settembre 2013. Si ringraziano Margherita Chiti di Teodora Film, Daniele Del Pozzo di Gender Bender e Elena  Pagnoni della FICE-Emilia Romagna)