INTERVISTE

interview top image

Munzi racconta "Anime nere"

Siamo a colloquio con Francesco Munzi, autore di Anime nere, uno dei tre film italiani in Concorso a Venezia71.

Che ne pensi dell'accoglienza riservata al tuo film? In Sala Grande ci sono stati lunghi minuti di applausi.
La reazione è stata positiva, decisamente calorosa
, soprattutto da parte del pubblico. E ciò mi rende molto contento perché si tratta del pubblico di un festival a cui tengo molto. Quanto alla stampa, non ho avuto ancora il tempo di leggere tutto quello che è stato scritto in maniera approfondita, ma non mi sembra ci siano state avversioni particolari.

Forse si tratta solo di una suggestione, ma certe atmosfere, lo sviluppo narrativo che imprimi alla storia, la caratterizzazione dei personaggi, richiamano alla memoria The Funeral di Abel Ferrara, che era passato proprio a Venezia, nel 1996, per poi essere distribuito nelle sale italiane con il titolo Fratelli. Anime nere parla anche delle relazioni e dei conflitti di tre fratelli.
È un riferimento che mi fa piacere. A un certo punto, a me e il mio montatore Cristiano Travaglioli, è venuto in mente proprio questo film. Lo avevo visto, naturalmente, e come tanti lo avevo amato molto. Sicuramente la suggestione c'è stata. Ma, a dire il vero, già nella rassegna stampa del libro di Gioacchino Criaco a cui mi sono ispirato [Anime nere, Rubbettino editore], ho notato più di un rimando all'opera di Ferrara. Tutti e tre i progetti, insomma, credo condividano la struttura della tragedia, il tema specifico se ci pensiamo bene si basa su uno schema classico. Altri riferimenti o modelli, che pure possono esserci stati, lavorano nell'inconscio, come sedimentazione. Io cerco di innamorarmi di una storia e di provare a raccontarla nella maniera più giusta possibile. Andando avanti negli anni, ho imparato anche a fregarmene della mia stessa cinefilia, a liberarmene, ma anche ad accoglierla, quando si presenta. L'obiettivo è sempre quello di arrivare diretti al racconto di una storia, senza metterci troppo pensiero.

Mi sembra che nel tuo film ci sia anche una  riflessione molto attenta sul paesaggio italiano contemporaneo, urbano e contadino, che illumina un contrasto netto e problematico tra Nord e Sud, tra Milano dove si costruiscono grattacieli e la Calabria, con le case non finite, senza intonaco. 
Sono felicissimo del lavoro che ho condotto insieme a Luca Servino, lo scenografo, anche a livello dell'immagine complessiva che emerge nel mio film. Mi sembra che sia venuta fuori un'operazione giusta: c'è il contrasto fra la Calabria e Milano; c'è il contrasto fra la Calabria e la Calabria, perché ci sono due Africo, c'è un Africo che sta in montagna, che è un paese abbandonato, e un altro Africo che è stato costruito sulla Marina. I personaggi del film si muovono in questi due luoghi. Il luogo paterno, nel cuore del paese, è quello che viene utilizzato per fare le feste, dove si chiudono alleanze con le altre famiglie. Uno dei personaggi torna sempre in montagna perché ha un piccolo gregge di capre ma lo fa per passione, non perché sia davvero il suo mestiere.
Il paese che sta in Marina è un paese che ci racconta molto del nostro Sud, è stato costruito in maniera anarchica, le case sono senza intonaco a volte perché le persone sono povere, a volte perché non c'è interesse a essere in armonia con la cosa pubblica, si sente di non avere una identità.  C'è un forte contrasto tra la dimensione collettiva e gli interni che invece, a volte, sono lussuosi, con carte da parati e quadri importanti. C'è un doppio contrasto fra l'Italia del Nord, cioè Milano, e le due Calabrie. Il contrasto tra arcaico e moderno, tra il piccolissimo e il selvaggio dell'Aspromonte e il mondo, tant'è che il film inizia nel porto di Amsterdam. Era un corto circuito presente nel libro che ho voluto mantenere nel film.

Anche se i riferimenti geografici appaiono volutamente vaghi, appena suggeriti.
Beh, sì, avevo in mente personaggi che si muovevano liberamente ovunque, in un'ottica non immediatamente italiana, così da non rappresentare lo stereotipo del mafioso, con tutti i suoi accessori. Del resto, i calabresi in generale non esibiscono il loro potere, la loro ricchezza. Sono persone normali, a volte anche molto colte, fanno lavori borghesi, sono avvocati, ingegneri, l'anima nera non è legata alla presenza del crimine in sé, non la vedi subito, non è così esplicita e visibile. Ha a che fare con l'interno, con qualcosa di più profondo.
Io mi sono basato essenzialmente sul racconto di una famiglia criminale, cercando di rimanere sempre dentro questo reticolo di relazioni, di  legami. Il gioco della messa in scena è stato proprio questo. Rimanere sempre lì. In molti film di mafia, in molti romanzi l'istituzione è rappresentata da alcune figure precise, il magistrato, il poliziotto, qualcuno che indaga. Tutto ciò nel mio film non c'è. Ci sono soltanto personaggi generici, quasi a dimostrare la loro distanza. Anzi, ho cercato di raccontare cose che accadono normalmente in Calabria, ossia le perquisizioni preventive, che riguardano le famiglie vittime di un delitto, non quelle ritenute responsabili. Proprio perché si conoscono le leggi di quella terra. Si va alla ricerca di armi, sapendo che sarà organizzata una vendetta. Sono queste le anime nere.