INTERVISTE

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Stephen Frears: masterclass (Festival del cinema europeo di Lecce)

Stephen Frears, cresciuto e maturato tra il “free cinema” e la “british reinassance” è, ad oggi, uno dei registi inglesi più noto per la sua straordinaria capacità di attraversare i generi, autodefinendosi “incapace di sottostare a un modo espressivo”, nonché di ideare e dirigere personaggi femminili con maestria tale da portare spesso (per la precisione 7 volte) le attrici che con lui collaborano alla nomination agli Oscar. Con un occhio attento all'interrazialità, Frears è spesso in grado di raccontare contesti sociali contrastati e contrastanti, attraverso personaggi che si incontrano su una linea di demarcazione che è quella delle differenze di classe o culturali, ma che trovano sempre un punto di contatto o di dialogo. Proprio sulla scia di questo modus operandi, si apre la masterclass tenuta al 18° Festival del Cinema Europeo di Lecce.

È qui ospite al Festival in quanto reduce dall'ultimo film su cui sta lavorando, Victoria and Abdul, ci racconta qualcosa in più di questo lungometraggio?
Il film parla di una regina potente, la regina Vittoria, appunto, e del suo rapporto con un servo musulmano. Capite, insomma, già da queste poche parole che, quando uscirà, piacerà sicuramente molto a Trump (scherza). Il ruolo femminile principale è interpretato da Judi Dench, caposaldo della nostra tradizione teatrale, che in passato ha già interpretato magistralmente la regina Vittoria in un'altra pellicola, La Mia Regina (Mrs. Brown). La storia nasce invece dal fatto che, nonostante io sia cresciuto con un'educazione prettamente tradizionale, mi definisco “cittadino di una società moderna” e perciò trovo singolare poter esplorare questo rapporto, che unisce due estremi così distanti: Vittoria imperatrice in India e regina d'Inghilterra, tuttavia era una donna molto sovversiva. Per questo era ed è un personaggio interessante. Per esempio, in questa relazione con Abdul, il suo servitore, si fece insegnare l'urdu, arrivando a padroneggiarlo a tal punto da scrivere il suo stesso diario in questa lingua.

Racconti di questo tipo, in cui si va a sviscerare il punto di contatto tra due personaggi che partono da mondi completamente opposti, sono quelli che l'hanno resa più celebre (a cominciare da My Beautiful Laundrette, in avanti). Qual è la chiave narrativa che sta alla base?
Diceva Billy Wilder che la gente deve incontrarsi, deve parlarsi. È questa la regola. È tutto qui.

Parlando della Sua storia professionale, Lei ha conosciuto in prima persona il cosiddetto “free cinema”. Cosa si ricorda di quegli anni?
Ho lavorato come assistente di Karel Reisz e Lindsay Anderson, autori che hanno rivoluzionato il cinema inglese, in un modo tale che non gli ha mai più permesso di essere quello di un tempo. Prima infatti i film trattavano solo le vicende delle classi più agiate della borghesia ma, grazie a questi personaggi, si è spostata l'attenzione verso il basso. D'altronde in contemporanea cambiava la letteratura, mentre nella musica erano arrivati i Beatles! Però, va detto, non era nulla di nuovo, a livello europeo: voi italiani avete stravolto il cinema molto prima di noi britannici, negli anni '40-'50, grazie a Rossellini, Visconti...

Questi insegnamenti hanno fatto sì che fosse poi tra i protagonisti della “british reinassance”, con film come My Beautiful Laundrette
La Gran Bretagna è sempre stata indecisa se guardare all'Europa o all'America. Un'indecisione che, al di là della politica e di altri settori, si manifesta anche nel cinema. Dagli anni '80 io ho scelto di guardare al cinema europeo e My Beautiful Laundrette ne è un esempio. Il film era una produzione Channel 4, televisivo, dunque. E la cosa bella è che la TV, all'epoca, godeva di una grande libertà. Per questo è stato possibile raccontare una storia incentrata sulle relazioni tra bianchi e indiani. La sceneggiatura originale, inoltre, era di Harif Kureishi, figlio di un lattaio pachistano e di madre inglese, cosa che già di per sé poteva bastare per farne un'opera di grande novità e un segno di attrattiva.

Ha parlato di una “scelta europeistica”, eppure Lei ha fatto anche alcuni film americani, altrettanto belli...
(Fa “così così” con la mano). Ho avuto la fortuna di iniziare l'esperienza in America con Scorsese, un uomo molto saggio, forse la persona più intelligente che potessi sperare di incontrare. Con lui sono nati due film: Rischiose Abitudini e il western Hi-Lo Country. L'incontro successivo con gli Studio, invece, è stato meno facile e meno produttivo.

Quando si parla di cinema inglese, si pensa spesso ad una sorta di “triumvirato” composto da Lei, Ken Loach e Mike Leight. Qual è il vostro effettivo rapporto?
Nessuno. Ci incontriamo al massimo per la strada.

Lei insegna regia, ma afferma che questo sia, di per sé, un controsenso, poiché si può solo imparare e non insegnare a fare un film. Da chi ritiene di aver imparato? Da dove nasce la sua passione per il cinema?
La mia passione nasce da un errore, dalla casualità. Ho incontrato Karel Reisz in teatro e l'ha aiutato a lavorare su Morgan Matto da Legare. L'esperienza è stata così straordinaria, che ho deciso che volevo essere come lui. Da quel momento ho cominciato a fare questo mestiere, ma prima non ci avevo assolutamente mai pensato.