Ben Wheatley

Free Fire

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Provate a unire i puntini di Free Fire: non vi verrà fuori nessuna pista cifrata. Nessun disegno. Nessun piano. «I’m not good with names», non me la cavo coi nomi: la battuta di uno dei protagonisti rivela che in fondo non ci sono identità che contino, volti più incisivi di altri, mire più precise di altre. In Free Fire, dentro questo grande magazzino di macerie dove si deve svolgere una compravendita di armi, non c’è un solo individuo capace di scegliere per sé, agire con un programma, portare a termine un progetto. Non ce n’è uno che abdichi a qualcosa, né agli altri, né al destino: vince il nonsense, a tal punto che i morti fanno fatica a morire («I’m not dead»), i vivi diventano zoppi e mezzi ciechi, le pallottole centrano il bersaglio per caso e togliere definitivamente di mezzo qualcuno è un’eventualità poco comprensibile.

Eppure l’assurdo ha un suo verso. Forse addirittura un senso. Ben Wheatley, che non ha mai fatto un film uguale all’altro, e che però non sempre mi ha convinto, sembra tornare al “piano terra” del suo esordio, Down Terrace, che azzerava il genere gangster mentre lo conduceva a un’implosione teatrale. Stessa cosa in Free Fire, dove l’edificio della vicenda appare il palcoscenico per la messa in scena di una pièce beckettiana: non si attenderà Godot, però un certo significato capace di dare uniformità agli eventi, sì, ecco, quello sì. Un’attesa vana, naturalmente. Mi sembra che Free Fire sia ben più acuto di buona parte dei blurb che ne hanno accompagnato l’uscita. Adrenalinico, cool, divertente, esplosivo, come un Guy Ritchie qualunque. No: nella sua slabbratura non finita, nel suo essere totalmente senza centro, credo che Free Fire appartenga di più alle visioni anti-riepilogative e “aperte” di noir come Expect the Unexpected o PTU piuttosto che ai giochi autoconclusi alla Snatch – Lo strappo. Le azioni si ripetono, si prolungano, non hanno un tempo, non hanno inizio o termine; la morte giunge inaspettata; il caos regna e non produce un gesto coerente, uno sguardo conforme, una logica.

E tutto avviene senza stilizzazioni inutili, senza virgolettate formaliste. Perfino il ralenti non ha le sembianze di un balletto ma assomiglia a una performance situazionista. Ecco perché Free Fire è efficace nella sua radicalità non dimostrativa, benché Wheatley non sia certo Johnnie To: dopo una partenza in cui sembra strizzare l’occhiolino, non sceglie il compromesso con il pubblico e non lo lusinga, ma anzi spappola il set assieme al suo cast, sbriciolandone la compattezza, oscurandone i punti cardinali e la geometria. Sarà anche iperconsapevolezza di genere, tuttavia l’esito non è sciocco, perché ci lavora in mezzo, rovistandone superfici e dotazioni, disperdendone le sicurezze e le confidenze, e lasciando che si componga un’idea di mondo dissonante e poco giudiziosa. Inutile cercarvi un sentimento, una sensibilità per le cose, un giusto verso, in Free Fire l’irrazionale assume contorni forse “divertenti, adrenalinici, esplosivi”, però anche cupi. Mentre il genere, da parte sua, non può che collassare. E la vita non continua.

Free Fire
Francia, Gran Bretagna, 2016, 91'
Titolo originale:
Free Fire
Regia:
Ben Wheatley
Sceneggiatura:
Amy Jump, Ben Wheatley
Fotografia:
Laurie Rose
Montaggio:
Amy Jump, Ben Wheatley
Musica:
Ben Salisbury, Geoff Barrow
Cast:
Armie Hammer, Babou Ceesay, Brie Larson, Cillian Murphy, Enzo Cilenti, Jack Reynor, Michael Smiley, Noah Taylor, Sam Riley, Sharlto Copley
Produzione:
Film4, Protagonist Pictures, Rook Films
Distribuzione:
Movies Inspired

Boston, 1978. In un deposito abbandonato, Justine ha organizzato un incontro tra due irlandesi e una gang guidata da Hammer e Evans per la vendita di un carico di armi da fuoco. Ma quando, durante la consegna, vengono sparati dei colpi, comincia un gioco per la sopravvivenza.

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