Dagur Kári

Virgin Mountain di Dagur Kári

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Virgin Mountain è un po’ il “bignami” del cinema nordico degli ultimi anni, quello che è diventato quasi un genere, che abbiamo imparato a conoscere nei festival, che ci ha affascinato per i paesaggi, le luci, l’ironia amara, i personaggi sempre in crisi esistenziale, lo spirito un po’ surreale e le performance d’attore.

E Virgin Mountain è un po’ tutto questo. Esempio limpido di questa koiné visiva e narrativa, il film ha dalla sua che, in fondo, è proprio un film sull’essere chi si è. E dunque ci sta anche la sua perfetta corrispondenza a un modo di fare cinema che ha un’identità precisa (o forse si potrebbe dire a una formula rodata).

D’altra parte chi è Fúsi (limpidamente e sinteticamente il titolo originale)? È una specie di enorme feto che aspetta di nascere. E questa nascita passa proprio attraverso la presa di coscienza della propria identità. La vita di Fúsi scorre infatti da oltre quarant’anni come bloccata in una fase intrauterina. Non è un “bambinone” che si rifiuta di crescere come (gli) dicono in molti, come in molti credono, è piuttosto un feto che sta aspettando il momento giusto per venire al mondo. Il gigantesco Fúsi vive infatti come in una bolla, o meglio in un sistema di bolle, dal cui interno osserva il mondo senza, sostanzialmente, interagire. Fúsi, come il feto, non è infatti estraneo all’esperienza del mondo che lo circonda ma non agisce davvero in esso, percepisce, fluttuando, rannicchiandosi ma non agisce né, tanto meno, reagisce agli elementi che lo investono.

La prima bolla (o utero o grembo) che sta intorno all’immenso corpo di Fúsi è la sua casa; le piccole stanze lo avvolgono, le pareti lo proteggono mentre il tempo passa lentamente tra una ciotola di cereali, un bicchiere di latte e un plastico che simula una delle grandi battaglie della Seconda Guerra Mondiale. La madre e il suo compagno sono, in maniera opposta, gli elementi perturbatori di questo ambiente. L’una tirandolo verso l’interno, l’altro spingendoli all’esterno, strattonano Fúsi che asseconda il movimento che loro cercano di imprimere alla sua esistenza (e fin troppo intuitiva è la lettura simbolica di questo doppio ruolo).

La seconda bolla intorno all’immenso corpo di Fúsi è il ventre dell’aeroporto nel quale lavora alla logistica dei bagagli, senza fare un giorno di assenza, senza parlare, senza creare alcun problema, senza sollevare alcuna obiezione, neanche contro i bulli che lo vessano. Anche qui Fúsi asseconda il movimento di tutto ciò che ha intorno, i carrelli, i nastri trasportatori, le angherie dei colleghi... tutto plasma la sua esistenza eccetto la sua volontà.

La terza grande bolla che gli sta intorno è quella che è sempre stata al centro dei film di Dagur Kári (e di molto di quel cinema di cui si diceva), ovvero la madre Islanda che con il suo paesaggio (qui personaggio più psicologico che fisico) culla e abbraccia e trattiene. Fúsi non è mai uscito da quei confini.

Ma chi è davvero Fúsi? Uno che aspetta il suo momento, guardando le cose attraverso i tanti vetri che tornano e i ritornano nel film. Uno sguardo altro (quello di Fúsi sul mondo e, va da sé, quello di una generazione di registi cresciuti guardando un orizzonte isolano fattosi frontiera psicologica ed estetica), uno sguardo interno eppure alieno come quello di un feto nel grembo materno.

La vita di Fúsi è dunque l’attesa di un momento ma un momento che, nel suo caso, sembra destinato a non venire mai. Arriva invece grazie all’accidentale incontro con Sjöfn che dicendogli “Grazie per non avermi ucciso” è come se lo facesse venire al mondo. E non tanto perché Fúsi s'innamora di lei (ma chissà poi se si è innamorato?), o perché decide di parlare con la ragazzina nuova del piano di sotto che lo fa giocare con i giochi da femmina (e non solo con i confortanti e familiari carri armati del plastico di El Alamein), o perché va al corso di ballo o perché, ancora, richiede alla radio un brano di Dolly Parton invece del solito pezzo metal. Ma semplicemente perché Fúsi capisce di poter vivere continuando a essere quello che è e capisce che lo può fare agendo e non assecondando gli altri. Essere chi è, anche se è un loser, un freak, uno non esattamente con-forme… essere chi è, fino a salire su un aereo con l’illusione di stare aspettando qualcuno per accorgersi infine di essere perfettamente in grado di affrontarlo da solo quel viaggio, solo guardando fuori dal finestrino senza sapere cosa aspettarsi. Sorridendo della propria alienità. Essere chi si è, anche a costo di sembrare un cliché. 

Virgin Mountain
Islanda, Danimarca, 2017, 94'
Titolo originale:
Fùsi
Regia:
Dagur Kári
Sceneggiatura:
Dagur Kári
Fotografia:
Rasmus Videbaek
Montaggio:
Andri Steinn, Olivier Bugge Coutté
Musica:
Karsten Fundal
Cast:
Arnar Jónsson, Franziska Una Dagsdóttir, Friðrik Friðriksson, Gunnar Jónsson, Ilmur Kristjánsdóttir, Margrét Helga Jóhannsdóttir, Sigurjón Kjartansson, Thorir Sæmundsson, Walter Grímsson, Walter Grímsson, Þorsteinn Gunnarsson
Produzione:
Blueeyes Productions, Nimbus Film Productions, RVK Studios
Distribuzione:
Movies Inspired

Fusi è un quarantenne che fatica a entrare nel mondo degli adulti. Quando una donna iperattiva e un bimbo di otto anni entrano improvvisamente nella sua vita, è costretto a saltare le tappe e assumersi le sue responsabilità.

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