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Shirley di Josephine Decker

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Shirley Jacskson, scrittrice, moglie, donna. O forse il contrario, donna, moglie, scrittrice. Inventrice di mondi, demiurga manipolatrice. Di cosa? Della realtà, naturalmente, piegata al suo volere d’autrice. Autrice compulsiva, prolifica tanto nel battere a macchina quanto nello stracciare fogli di carta. Genio egocentrico, con la scrittura come unico modo di vivere. Donna vittima dell’istituzione matrimoniale, delle regole scritte e non scritte della società patriarcale.

Così la racconta Shirley, che la coglie all’inizio degli anni ’50, nel Vermont, presso il l'Università di Bennington dove il marito Stanley Edgar Hyman insegnava letteratura. A partire da una sceneggiatura di Sarah Gubbins e tratta dal romanzo Susan Scarf Merrell, Josephine Decker abbraccia in pieno lo sfasamento percettivo, tipico della scrittura della Jackson, tra realtà e illusione, confondendo i piani narrativi, le figure in scena, i loro rapporti speculari e opposti.

Per la regista americana, da tempo una delle figure più interessanti del panorama indie, il film è una ripresa del suo cinema squilibrato e isterico, qui rafforzato e non anestetizzato da un contesto produttivo più strutturato: il parossismo horror di Butter on the Latch e mélo di Thou Wast Mild and Lovely, così come l’energia selvaggia di Madeline’s Madeline, si traducono in un narrazione carica di tensione opprimente, in una distorsione del realismo della messinscena che porta nei territori dell’allucinazione e della creazione assoluta. Aiutata da una scrittura solida e dalle interpretazioni di due mostri come Elisabeth Moss (anche produttrice) e Michael Stuhlbarg (in una versione isterica dell’intellettuale di Chiamami col tuo nome), Decker gioca con la figura del doppio, con lo specchiamento fra realtà e scrittura, con i rapporti di attrazione e repulsione fra i personaggi, con lo sviluppo in parallelo della biografia della Jackson (che mal sopportò i tradimenti del marito e si ammalò di agorafobia) e dei suoi libri, in particolare Hangsaman.

Nello spazio ristretto di una tipica abitazione del New England, il film accumula personaggi, dialoghi, primi piani; usa il montaggio per scardinare i rapporti fra inquadrature, il suono per suggerire una minaccia costante; trova tre personaggi femminili sovrapposti – Shirley, Rose, la moglie incinta dell’assistente di Stanley, invitata col marito a vivere dai Jackson per il semestre, e l’immaginaria figura di una studentessa sparita che serve alla scrittrice come spunto per un nuovo romanzo – nei quali rifrange l’immagine di una femminilità padrona di sé stessa, padrona di creare, procreare, occupare l’universo maschile.

Non c’è una vera e propria trama in Shirley, a parte il rapporto di attrazione fra Shirley e Rose e di scontro fra Shirley e Stanely: ci sono piuttosto i resti infiniti di potenziali trame che appartengono tanto al mondo della Jackson quanto a quello della Decker, regista capace di abbandonare lo spettatore in luoghi inospitali e di trovare nel cinema lo strumento per redimere la realtà con una forma di orrore purificatore e femminile.