La zona morta di David Cronenberg

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Questa notte su Iris, all’1.55, uno dei più famosi e importanti film di David Cronenberg: La zona morta. Cosa ne scriveva il più grande esperto di cinema americano che Cineforum abbia mai avuto, Franco La Polla, nel 1984, quando il film uscì in sala? Clicca qui per acquistare il n. 238 con la recensione completa del film.


In epoca di new horror meraviglia un film come La zona morta, e meraviglia che a proporlo sia proprio David Cronenberg, un regista che si annovera fra i giovani padri del cinema orrifico antilewtoniano, fra i “ragazzi terribili” che hanno tenuto a battesimo il cinema contemporaneo dell'antieufemismo e dell'indecenza del corpo.

A dire il vero, con Scanners il regista canadese sembrava aver accennato a rivedere in qualche misura il disgusto che aveva caratterizzato altri suoi film precedenti. Ma c'era poi stato Videodrome, pellicola a mio parere di notevole importanza teorica, ma certo di nuovo allineata alla più regolare poetica di shock tipica del new horror.

Va comunque dato atto a Cronenberg che, sensazionalistiche o meno, le sue pellicole denotano tutte una personale, innegabile padronanza del mezzo cinematografico. A un punto tale che proprio le sue trovate più mostruose (gli strani nanetti e le deformazioni fisiche di Samantha Eggar in Brood - La covata malefica, ad esempio) finivano per figurare come eccessive non tanto in se stesse quanto soprattutto in relazione al suo modo economico e funzionale di costruire il film. Le opere di Cronenberg, intendo dire, vivono di un ritmo, di un taglio, di una concezione strutturale della narrazione ammirevolmente dinamici, tanto da rendere lo svelamento del mostruoso quasi controproducente ai fini di costruzione che esse perseguono.

Ora, La zona morta è il primo film di Cronenberg ad aver eliminato tale “incongruenza” dell'orrido, il primo cioè ad affidarsi completamente ai modi del racconto escludendo l'identificazione fra climax (di una singola sequenza così come dell'intera opera) e visione della mostruosità. Cronenberg vi inietta la sua usuale dose di senso del ritmo e, perché no?, di turbamento e disagio, ma facendo leva unicamente sulla sensazione e non sul sensazionalismo. Non ci sono teste che esplodono né strane aberrazioni del corpo nel loro farsi, in La zona morta, ma solo esplosioni e aberra- zioni interiori che squassando lo spirito giungono fino al corpo.

[…] Non ho letto il romanzo di Stephen King (che peraltro mi assicurano sostanzialmente rispettato da Cronenberg), ma è quasi certo che il regista lo abbia nobilitato attraverso la sua indubbia capacità di concentrare la tensione dei vari momenti di “shining” in modo più veloce e drammatico di quanto non lo sia usualmente lo stile piatto del sin troppo famoso scrittore americano. La mdp si muove con continui carrelli davanti alle case del film quasi a suggerire vaghe minacce e strani turbamenti allo spettatore. Poi, con radicale mutamento di registro, propone continui primi piani concentrandosi sul viso degli attori – e primamente del protagonista – come a scrutare quali domande e quali esperienze interiori esso celi. L'obiettivo non riesce a formularle (né forse vuole riuscirei), e le scene di sapore subliminale viste dallo sguardo “spirituale” di John non vanno oltre i regolari, accademici modi di costruzione, l'usuale retorica del caso. Cronenberg invece riesce magnificamente a darci ciò che è più importante, il correlativo oggettivo della sofferenza interiore del protagonista […].

Per questo La zona morta di Cronenberg, regista che abbiamo sempre intuito sensibile al problema della “diversità” è probabilmente la sua opera migliore. Perché egli ha abbandonato alcuni dei cliché a lui particolarmente cari e regolarmente ricorrenti nei suoi film (Herbert Lom, ad esempio, è qui il primo dottore, il primo uomo di scienza che Cronenberg presenta non tanto con simpatia quanto con reale e impotente umanità) a vantaggio di uno scavo in profondità di quello stesso tema, di un'analisi soffertissima del significato della diversità e non – per quanto ammirevolmente in passato egli lo abbia fatto – dell'esibizione dei modi francamente stravaganti (e naturalmente orripilanti) in cui nella sua fantasia essa si manifesta.