Bocconi prelibati

Bocconi prelibati

De gustibus. Ma anche no

Il gusto non è una scorciatoia. E neanche una scappatoia. Non è un vicolo attraverso il quale giungere all’assoluzione. E non è un pertugio da cui evadere verso l’amnistia. Casomai è un vicolo cieco. Casomai è la via Castellana Bandiera di una democraticità che, a forza di cose e a forza di andare avanti, ha perso di senso.

Meglio la verità. Non la petizione di principio, che s’attorciglia e strozza, ma la verità sì. Non esiste, la verità? Eccome se esiste. E batte oggi il gusto, del quale francamente non se ne può più. Col gusto la società odierna campa. A me mi piace, a te non ti piace, de gustibus, chiusa la faccenda. Complimenti per l’argomentazione. Complimenti per la profondità della tesi e delle idee. Ma allora a cosa può servire la critica, se niente è bello ma è bello ciò che piace? A cosa può servire, questa bastarda di critica, la più seria e contestualizzata, se il gusto è l’unica forma di giudizio?

Addio a tutti gli studi di questo mondo, ciao ciao a ogni preparazione a ogni lotta sul campo a ogni camicia sudata a ogni parola spesa gratis; seppelliamo qualunque autorevolezza conquistata nel tempo, dunque, per garantire il gusto personale, cancro primario del cosiddetto network sociale. Esercito la mia libertà, vedo ascolto leggo, e poi do il mio parere, eliminando in poche battute, giusto un cinguettio o tre righe di un post, un’intera tradizione della riflessione competente. Il nuovo critico è il nuovo spettatore, la persona comune, uno nessuno centomila. Perché no? D’altronde, chiunque ha il diritto di esprimersi. O no?

No. Preferisco tornare alla corrente di pensiero, al gruppo di lavoro, alla specializzazione, al sudore di anni di prove e controprove. Preferisco un solo giudizio, circostanziato e di valore, ma di un valore avallato da un passato glorioso, a decine e decine di iperstimolazioni epidermiche assicurate da un sistema globalizzato dove ogni parola è uguale all’altra. Cosa me ne faccio dell’opinione? Io voglio qualcuno in cui credere, al quale dare la mia fiducia, che sia in grado di farmi cambiare idea (quanto sono stolti coloro che non cambiano mai idea! quanto è brutta la vita di coloro che non provano mai l’ebbrezza di cambiare idea, sull’onda del tempo di un nuovo sguardo di un consiglio, ma autorevole! fidato! competente!).

Non voglio una valutazione che nasca e muoia nel giro di centoquaranta caratteri, esternata da uno al quale ho concesso un’amicizia deproblematicizzata; voglio una pagina, voglio un libro, voglio essere convinto, e stimolato, e messo in un angolo, e rimpicciolito. Voglio sentirmi una minoranza: perché so che c’è qualcuno più in gamba di me, che ha vinto col sangue una posizione (che io peraltro gli riconosco), che ha sulle spalle infiniti minuti di acume e di scrittura.

Credo nell’esperienza, mi rifiuto di credere nel qualunquismo democratico. Mi rifiuto di credere al gusto come excusatio non petita allenata esclusivamente da giorni e notti trascorsi davanti alla tastiera. E respingo l’esibizione del gusto come vetrina di una boutique casalinga fai-da-te, in cui mostrare ogni carabattola e soltanto per questo avvalorarla.

La parola non può essere di tutti. La parola deve essere occupata e sottomessa a suon di evidenza. Non è bello ciò che piace, è bello ciò che è bello. Altrimenti vanifichiamo lustri di compiti illustri. Non me la sento di accettare che tutto possa essere bello, e trovare una giustificazione, e trovare un verso. Pretendo al contrario che ci sia qualcuno (un critico, un pensatore, perfino una firma che possa definirsi senza vituperio intellettuale) che mi aiuti a costruirmelo, il gusto, a educarlo, a dargli uno stile; pretendo che in questa contemporaneità il gusto possa essere modellato e plasmato da un gusto già modellato e plasmato, condivisibile e sensato. Non ammetto una pluralità sconsiderata di gusti: gradirei invece che di gusti ce ne fossero pochi, pochissimi, uno solo, al quale offrire i miei, per rindirizzarli e cambiargli di segno, e tutt’al più annullarli. Le opinioni vanno e vengono: io voglio qualcosa che resti.

De gustibus? Che espressione orrenda, fra l’altro.