Blow Up di Michelangelo Antonioni

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L'opposizione arte-vita e il giallo della verità 

Veder chiaro nelle cose. Scoprire il loro vero significato, ascoltare il senso intimo della musica, non seguirne esternamente il ritmo. Il “giallo” in cui Thomas si trova coinvolto, e che questi vorrebbe risolvere con gli strumenti della sua professione, è un avvenimento che potrebbe fungere da elemento catalizzatore in un altro “giallo” ancora, quello vero, che è la ricerca della verità. In sé, la mano che impugna la pistola, l'ombra che si rivela un cadavere, il cadavere stesso e le fotografie che spariscono sono fatti imprecisati, e non necessaria è la soluzione del mistero.

Il senso del racconto sta altrove, poiché ben altro è il mistero, come il senso di L'avventura andava ben oltre la sparizione insoluta della ragazza: «Il racconto come intreccio», scrive Umberto Eco riferendosi proprio a L'avventura, «non esiste proprio perché nel regista c'è la calcolata volontà di comunicare un senso di indeterminazione, una frustrazione degli istinti romanzeschi dello spettatore, affinché questi si introduca fattivamente al centro della finzione (che è già vita filtrata) per orientarsi attraverso una serie di giudizi intellettuali e morali».

Insomma Hitchcock, tirato in ballo da qualcuno, non c'entra proprio. È a questo punto che la professione del protagonista assume un rilievo preciso, ben al di là del dato esterno (è lo stesso Antonioni che avverte: «Ho l'impressione che l'essenziale sia di dare al film quasi un tono di allegoria»). Thomas dunque, oltre che fotografo-uomo d'affari, è un fotografo-artista, un creatore, un intellettuale. La sua è la ricerca degli intellettuali del nostro tempo per i quali le condizioni di vita del mondo contemporaneo hanno acuito fino allo spasimo la opposizione arte-vita. Era anche il dramma di Sandro, l'architetto di L'avventura, e di Giovanni Pontano, lo scrittore di La notte. Thomas vorrebbe non creare discontinuità fra l'arte e la vita, ma in realtà fra queste due dimensioni c'è un abisso, in quanto in nessuna delle due egli trova quel che darebbe significato ad entrambe, la genuinità, l'autenticità. La verità, in una parola.

Thomas compie degli sforzi per catturare la realtà (le foto scattate nell'ospizio: uno sportello col vetro scheggiato, un materasso rivoltato, un vecchio nudo che ripone i suoi miseri effetti; quelle dell'album: una donna in età. un funerale, una manifestazione operaia, dei bambini poveri, un barbone), ma subito questi sforzi si indirizzano verso l'affare, la situazione da sfruttare nel senso professionalmente più banale. Egli strumentalizza, insomma, questa realtà. Ma ecco la rottura causata dalla scoperta occasionate del delitto, alla quale Thomas si aggrappa disperatamente nel lungo pomeriggio in studio, quando interroga i «segni» della vita e crede di scoprirvi una realtà insospettata, negata ai suoi occhi. Antonioni qui raggiunge uno dei momenti più alti del suo cinema: dal confronto delle immagini, cioè dei “segni”, dall'uso intenso degli strumenti, dalla meditazione disperata nasce un qualcosa che sembra un trionfante risultato ma che subito dopo svanisce nel nulla, e tutto ritorna alla primitiva incertezza.

In questa ricerca, lo studio di Thomas appare come l'antro favoloso, il castello incantato dello stregone che cerca la pietra filosofale, il “quid” che cambi il piombo della realtà fenomenica nell'oro della realtà noumenica, cioè della verità. Ecco la struttura a piani diversi dello studio, le scalette, i passaggi, i ballatoi, le grosse travi di legno, la carta perlacea, le carte colorate, i riflettori e i cavi, le piume variopinte e i vestiti, le porte colorate dei gabinetti di sviluppo e stampa, da cui Thomas entra ed esce come officiando un rito davvero magico, di magia nera, che sa quasi di zolfo; ecco la luce gialla dell'interno e la lampadina rossa dell'esterno, e tutto un armamentario che si rivela illusorio.

Sta di fatto che la verità è inafferrabile: neppure il cadavere, prima fotografato e poi visto da Thomas, è vero. Si rovescia, nel finale, il concetto: la verità sta addirittura nella finzione, purché sia accettata come verità. Ci riferiamo alla partita a tennis senza pallina, che è una pagina di squisita architettura e che rappresenta tutto il film, dove i concetti non sono certo più importanti della contemplazione estetica. La macchina da presa, ad esempio, che segue in carrellata l'ideale pallina uscita di campo, rallentando e fermandosi sull'erba – ad inquadrare l'erba, il prato vuoto – come se avesse seguito davvero la corsa di una pallina, e che poi ne segue la traiettoria quando la “pallina” viene rilanciata, oltre che suggellare il concetto della relatività crea momenti di vera suggestione poetica, fatta di un senso impalpabile di mistero, di partecipazione a qualcosa di fantastico, di magico.

L'esperienza ci inganna, non c’è dubbio, e Antoniani non si limita a illustrare gli inganni della vista e di quella sua “sublimazione” che è l'occhio vitreo della perfezionatissima Rollei, ma anche quelli dell'udito e dei suoi “tramiti meccanici”: l'amplificatore della sala da musica che fa i capricci, contro il quale si accanisce, per “punirlo”, il chitarrista, e per contro il rumore della pallina che non c'è, udibile non soltanto ai « giocatori » ma anche a Thomas ed allo spettatore.

Qual è la verità? Ecco il vero “giallo”, il vero mistero. Riuscire a dare un ordine e un significato al caos della vita è, per il pittore Bill, «come trovare la chiave in un libro giallo», solo che qui, in questa esistenza finita, qualcuno ha buttato via la chiave. Ci può essere l'intuizione dell'arte, che interpreta a modo suo la realtà, suscitando tra realtà soggettiva, tra oggetto considerato e sensibilità osservante un gioco sottile di rapporti, una osmosi misteriosa, per cui certe volte il legame fra le due dimensioni si stabilisce anche al di fuori della volontà cosciente dell'artista-creatore. […]

Arte come “modificazione” del reale. Antonioni, come il Bergman di A proposito di tutte quelle signore e di Persona, nel pieno del suo discorso si ferma per interrogarsi, per confessarsi, per parlare di sé e del suo modo – dei modi possibili – di continuare il suo contatto con le cose e di esprimere questo contatto. Un film autobiografico, in certo senso, come Otto e mezzo per Fellini: «la crisi del personaggio del film è stata un po' anche mia, so di essere diverso da prima, proprio nel modo di stare di fronte alla realtà» (Antonioni in una lettera a «Cinema Nuovo»).