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Ripercorriamo la carriera dell'attore protagonista de Il posto, in occasione della rassegna "Prospettiva Olmi" che FIC - Federazione Italiana Cineforum dedica al grande Maestro bergamasco nell’anno della Capitale della Cultura.

«Ho scelto i protagonisti del film andando a fotografare le persone all’uscita delle scuole di avviamento al lavoro… perché volevo una categoria umana che avesse dentro di sé il problema del Posto: e tutto quello che c’è dentro una persona, poi inevitabilmente te lo ritrovi sul volto… se prendi un attore professionista, deve inventarsi tutta la fisionomia esteriore e interiore del personaggio, e poi raccontarla: ecco, la differenza di questo cinema sta proprio in questo, che hai lì tutto ciò che è autentico». Così diceva Ermanno Olmi ricordando il “casting” per Il posto. E in Sandro Panseri, che in realtà aveva fatto un provino un po’ più tradizionale, rispondendo a un’inserzione, aveva trovato due occhi grandi su un viso vero, due occhi che danno la misura della verità di quel volto, che al tempo stesso non è più una di quelle facce da guerra del Neorealismo. Due occhi e un viso che, a rivederli oggi, fanno venire in mente quell’aria un po’ così che ha Chalamet, sì proprio lui, quando non fa l’eroe senza macchia ma batte una strada un po’ più intimista, un po’ più umana. Due occhi che guardano, testimoniano i meccanismi interni del boom, senza caricatura, senza la stampella emozionale delle musiche dei Trovajoli, dei Piccioni, dei Lavagnino. Due occhi che al tempo stesso lasciano emergere lo smarrimento, le esitazioni, di fronte a una vita che rischia di essere una sequenza di domani uguali a ieri. È questo, innanzitutto Sandro Panseri per il cinema. È gli occhi di Domenico Cantoni da Meda, quindicenne proiettato dalla cascina ancora un po’ sonnacchiosa nell’Hinterland agli uffici della grande azienda, nel centro di Milano ribaltato dai lavori per la Metro; è il corpo di un adolescente nato alla fine della guerra sotto il soprabito rinforzato preso per fare contenta la mamma; sotto l’impermeabile à la page comprato col primo stipendio nella speranza di arrivare a Antonietta, conosciuta al concorso e poi persa di vista; sotto la paglietta un po’ da idiota, il «cotillon» della festa aziendale di Capodanno, dove Antonietta non si presenterà mai.

Gli occhi di Domenico qui, come saranno quelli del piccolo Minek (Domenico, di nuovo) nell’Albero degli zoccoli, specchio e punto di vista dell’innocenza (perduta) di una civiltà. Specchio in cui Olmi stesso vedeva qualcosa di sé, se non altro perché quel ragazzo di quindici anni era nato a Bergamo e si era trasferito a Treviglio, esattamente come era capitato a lui tanti anni prima.

«I nostri attori, veri, reali, autentici, non potevano che andare lì, non potevamo metterli in un teatro di posa». E così infatti è stato. Sandro Panseri, che nel frattempo era entrato a lavorare alla Edisonvolta, esattamente come il personaggio che aveva interpretato ne Il posto, fu forse lusingato dalla proposta di fare un film (subentrando a Jacques Perrin, nientemeno), nel 1962, diretto da Guido Guerrasio, che aveva anche lui come Olmi praticato le strade del documentario, nel contesto però più istituzionale dell’Istituto Luce: Dal sabato al lunedì è l’innocente evasione di una coppia di amici poco più che adolescenti, che si affacciano all’età adulta, a caccia di avventure con belle ragazze straniere sul Lago Maggiore; innocente soprattutto per parte di Sandrino Somaruga, pasticcere di Milano, al quale Panseri garantisce gli stessi occhi sgranati e sinceri che aveva prestato al personaggio di Domenico negli uffici dell’Edison; ma è presto chiaro che il mood, le curiosità, i pruriti del film vanno in un’altra direzione  – Guerrasio diventerà successivamente uno dei protagonisti dell’ondata dei mondo movies – e quegli occhi, quello sguardo, sembrano autenticamente smarriti: anche se il film è girato in location suggestive, quando non pittoresche, lontane dai teatri di posa, il dispositivo è molto diverso da quello che nella teoria olmiana fa emergere nel personaggio l’autenticità della persona.

Un paio di anni più tardi, nel 1965, dopo alcuni progetti abbozzati e abbandonati e un’esperienza a teatro con Mario Missiroli, l’ultima prova dattore di Panseri prima di  cambiare radicalmente la propria vita e abbandonare le scene, è una piccola parte, per quanto convincente, in Made in Italy di Nanni Loy. In questa ipertrofica allegoria del cattivo governo dell’Italia di quegli anni, più folle e sgangherata de I mostri, Sandro interpreta un maestro elementare che legge un testo a un gruppo di bambini in una scuola di campagna improvvisata in una stalla; è uno di quei brani che talvolta i maestri e le maestre leggevano per poi passare al dettato, un brano di propaganda turistico-confessionale che potrebbe essere una cosa strapaesana di era fascista o contemporanea (perfino contemporanea a noi) intrisa dei peggiori abbagli dell’illusione del boom, che si conclude con accenti di smaccata retorica: “il nostro amato stivale sotto l’illuminata guida del governo che ci rappresenta tutti e con l'aiuto della divina provvidenza è e sarà sempre il paese del sole, il paese della bellezza, il paese benedetto da dio”, solleva lo sguardo dalla pagina e vede di fronte a sé l’ultimo piccolo allievo, arrivato in ritardo, strabuzzando gli occhi alla vista delle scarpe sfasciate ai piedi del bambino: ironia della sorte, Minek è davanti a lui, ma il regista è un altro, e il tono, il film vanno in tutt’altra direzione.