Cinema (di)vino

Providence di Alain Resnais

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L'anziano scrittore Clive (John Gielgud), protagonista di Providence di Alain Resnais, vive una notte sospesa tra realtà e immaginazione. In compagnia delle bottiglie di sublime Chablis che si scola una dietro l’altra, ordina le persone che hanno popolato il suo passato in una sorta di romanzo... Così, su «Cineforum» n. 165-166, maggio-giugno 1977, Ermanno Comuzio recensiva il film sottolineando come il vino giochi un ruolo tutt'altro che secondario: anzi, stimola la fantasia e provoca quello stato di grazia in cui l'uomo vede le cose più lucidamente. L'importante è vivere (e andarsene) con dignità. Nonostante la fine sia vicina, forse c'è ancora tempo per bere un altro sorso...

 

 

Cineforum n. 165-166, maggio-giugno 1977

 

Scheda

Providence di Alain Resnais

Ermanno Comuzio

 

Lo scrittore e l'illusionista - Clive Langham è uno scrittore famoso, ha vissuto molto e intensamente, ha ottenuto successi e si è costruito una ricchezza. Vive solo, in una grande casa immersa in un parco, con due persone di servizio. Suo figlio Claude fa l'avvocato, è un carattere freddo, logico, riservato; sembra vada molto d'accordo con sua moglie Sonia. La moglie di Clive, Molly, si è uccisa anni prima quando aveva scoperto di avere il cancro. Clive ha anche un figlio bastardo, Kevin, uno scienziato svagato, dalle molte curiosità. Come lo scrittore del bergmaniano Come uno specchio studia la malattia della figlia per farne materia letteraria, così Clive si avvale della figura fisica, delle attività e delle vere o supposte caratteristiche dei suoi familiari per imbastirei sopra un romanzo. Così, egli ha sempre il controllo su questa “seconda vita” che mescola passato e presente, elementi reali e elementi immaginati, “correggendo” quanto non gli garba. Personaggio più borgesiano che pirandelliano, lo scrittore è padrone insomma di questa “nuova realtà” tutta letteraria, e si autogiustifica ai suoi stessi occhi, attraverso quello che fa dire ai suoi personaggi (fa dire ad esempio, vanitosamente, alla segretaria di Claude, che confessa di aver fatto all'amore col vecchio: «Perchè non avrei dovuto darmi a un genio?», e si crea alibi professionali spargendo acidità su Hemingway che, guarda caso, amava molto la bottiglia e nei suoi ultimi anni era fisicamente un rudere, tanto che confessava: «Sono un vecchio disperato», e affermando, provocato da Claude, che se lui non ha avuto il Premio Nobel nemmeno Graham Greene l'ha avuto).

La vecchiaia e la morte - C'è poco tempo perchè Clive è giunto al passo estremo, come Faust, della sua parabola (come in alcune moderne interpretazioni del mito, Clive è ad un tempo Faust e Mefistofele). Come nella favola, egli vorrebbe poter tornare indietro, rivivere meglio determinati istanti della sua vita, affrancarsi miracolosamente dei pesi che deve portare alla vigilia del gran passo. La vecchiaia, miserabile stagione, anticamera della morte, mortificazione delle forze vitali, sconfitta di ogni ambizione. L'onorata canizie, la vecchiaia veneranda a ogni spirito bennato, il sorridente pago tramonto di chi si sente in pace con se stesso? Tutte balle. «Vecchiaia: porta l'immagine dei danni che l'età molta ha seco», dice il Tommaseo, e Clive sente tutto l'orrore della sua età: «La vecchiaia è orrenda», dice, e subito dopo il pensiero gli raffigura davanti agli occhi, breve ma di un'evidenza agghiacciante, la visione di un cadavere di vecchio che il suo medico sta sezionando, visione che ritorna due volte. Senectus ipsa, dice Cicerone, est morbus: e la vecchiaia è sinonimo per Clive di malattia. «Sono un disastro fisiologico», dice di sè e, al sorgere dell'alba, mentre un uccello lontano fa sentire il suo lamento, constata con un pizzico di letteraria civetteria: «Come si insinua l'oscurità nel sangue. L'oscurità… Le mie vene stanno per scoppiare, la rossa linfa della vita sta per abbandonarmi…».

Da una parte il rimpianto di un corpo sano e integro, ormai lontano nel tempo, dall'altra la paura dell'“oscurità”, cioè della morte. Il vecchio è qualcosa che va rimosso, eliminato, perchè gli altri continuino a vivere. Anche Clive attribuisce al figlio Claude l'intenzione di eliminare il vecchio genitore: «Quando ti decidi a morire, a sbarazzarci della tua presenza? Sei un verme schifoso, bigotto e vigliacco!». Ma a questo Clive si ribella: «Questo non te lo permetto! Non saprò morire, ma almeno ho saputo vivere».

La vita e i ricordi  - Saper vivere. Clive ha vissuto intensamente, questo è certo. Il ricordo di ciò che ha fatto, delle donne che ha amato, dei libri che ha scritto, delle gioie e dei dolori trascorsi lo sostiene e lo fa sentire, dopotutto, corazzato contro l'enigma dell'aldilà. Di contro all'aridità e al filisteismo del figlio Claude, Clive è eccessivo, passionale, esuberante. Frequentatore accanito dei vizi più solari (è attaccato alla bottiglia, è stato ed è tuttora un sottaniere convinto), adora tutto quanto sa di vivo e di vero, e non si trattiene dal manifestare apertamente i suoi sentimenti. Ricordando certe cose, non si trattiene dal piangere di commozione (ciò per cui viene rimproverato dal figlio: «Quando ti darai un contegno?») e non per niente a Claude preferisce Kevin, dotato di fantasia e di fervore quanto il primo è una rotella perfetta di un frigido ingranaggio. «Fornicare, che bel verbo!», esclama Clive, e le belle donne sono per lui dei “miracoli fisiologici” (per questo ammira Sonia, la nuora, e si rammarica che abbia sposato quel tanghero di Claude, e inventa per lei piccanti adulteri con Kevin, sessualmente vigile). Amare, andare con le donne, così come bere, è una misura del vivere; anche se esercitata a dismisura. E un viatico per il gran passo. «Sarebbe bello andarsene da questo mondo anche per aver fottuto troppo», dice, e non è una posizione fuori della morale, anzi. «Non è un immorale», dice di lui la governante della casa «È soltanto un uomo che molti hanno disapprovato». Goloso di vita, quindi, e bersaglio della disapprovazione dei mediocri, degli ipocriti, degli individui a sangue freddo.

Il vino riscalda, lega alla terra, stimola la fantasia, provoca l'ebbrezza, cioè quello stato di grazia in cui l'uomo vede le cose più lucidamente, parla col dio, partecipa del mistero. È anche un modo per scacciare l'angoscia, si capisce. Per dimenticare: eppure il passato non è tutto da dimenticare, la memoria non è tutta angoscia, basta farla rivivere, basta “utilizzarla” per il presente. È uno dei temi fissi di Resnais. «Ti ricordi, Molly…?», e Clive, che ha molto da farsi perdonare, trova in certi ricordi la forza di affrontare la sua sorte. Anche se, in buona sostanza, il passato spesso illude e rimanda ad altro; come l'esistenza presente, del resto. Che è il tema specifico di Muriel, film al quale una situazione di Providence rimanda apertamente, quella di Claude che va a visitare Helen, l'ex amante («Chi non conosce quell'insieme di eccitazione e di timore che si prova quando si va a trovare una vecchia fiamma…?»).

Vivere resta sempre aleatorio e problematico; in fondo non si conosce neppure la differenza tra vivere e morire, il passaggio è confuso. Alla tronfia e volgare affermazione che l'uomo dovrebbe vivere come se fosse immortale, Claude ne contrappone una opposta: «Si dovrebbe vivere come si si stesse per morire, non fra una settimana, ma subito», affermazione che Clive commenta con sarcasmo ma della quale ha paura. Quali alibi si possono invocare, guardando indietro nei giorni trascorsi, nella vita vissuta? Ci è possibile bruciare le esperienze di cui ci vergognamo (un'inquadratura mostra un muro antico che viene demolito), ci è possibile ignorare le miserie che si nascondono sotto il comportamento civile (un'inquadratura mostra una mano che solleva una pietra, e sotto ci sono dei vermi)? La paura sommerge alla fin fine il cuore del protagonista.

Virtù private, pubblici vizi - La paura. Providence è percorso da numerose immagini minacciose. Immagini che riguardano non soltanto la sfera privata dei personaggi, ma anche quella pubblica. La prima inquadratura dell'“immaginazione” è il volo di un elicottero sopra una cattedrale: il potere, dotato dei crismi necessari, scende dall'alto a impadronirsi dei cervelli e delle volontà. Da allora il film è percorso da militari in assetto di guerra che rastrellano boschi e strade, che presidiano luoghi, che convogliano prigionieri, che eliminano dissidenti. Un luogo di raduno dei prigionieri, uno stadio, riconduce a una realtà tragicamente riconoscibile, quella della perdita di libertà del Cile. Più che una minaccia inquietante ma astratta, da incubo che riguarda altri, col quale in fondo noi non c'entriamo come in Il silenzio di Bergman, i segni della guerra e della repressione sono qui concreti perchè appaiono come una realtà in atto, che riguarda tutti, e addirittura “giustificata” (Claude è avvocato inserito nel sistema, celebra processi in tale sistema) o tollerata, se non condivisa (Claude, mentre è in automobile per andare da Helen, assiste impassibile a operazioni repressive, che per lui sono evidentemente la “norma”, segni quotidiani della violenza “ufficiale”, dunque “giusta”). Certo, queste immagini sono prodotte dalla mente di Clive, ma hanno una loro tragica immanenza, tanto da imporsi anche contro la sua volontà. Clive tenta di fare resistenza, di affermare la sua libertà individuale: «Che incubi balordi! D'altronde una esistenza balorda non può che dare incubi balordi… Ma a me non mi avrete, razza di bastardi!».

In gioventù, lo scrittore ha lottato contro il fascismo e contro ogni tipo di intolleranza. «Mio padre era un rivoluzionario, ai suoi tempi», dice di lui Claude. Ma quando Clive afferma, ricordando il lancio nello spazio dello Sputnik: «Un tempo dovevo essere un bolscevico. Oh, secoli fa…», lo stesso Claude commenta: «Non era la rivoluzione a spaventarlo, ma i rivoluzionari». Onestamente, Clive riconosce di sè che è stato «un rivoluzionario soltanto a metà». Sia pure con questi limiti, il “rivoluzionario” è contrapposto al “borghese”, il cui rappresentante perfetto è Claude. È lui che, un paio di volte, tenta di definirne la natura e di inquadrarne storicamente la funzione, una volta nell'“immaginazione” dello scrittore e l'altra nella “realtà”: «Che cos'è un borghese?», dice Claude «se non qualcuno che semplicemente non ha fiducia nella predisposizione della natura umana alle trasformazioni radicali?»; Ed ecco il successivo colloquio col padre: Clive, «Il borghese è semplicemente un uomo che rifiuta di accettare le novità ideologiche», Claude, «No, papà, no. Il borghese è semplicemente un uomo che vede nelle novità ideologiche la distruzione dei suoi valori. E forse anch'io lo sono. Non so se i miei valori sono veri o falsi, ma sono le strutture morali entro cui posso vivere», Clive, «Non capisco come si possano confondere le virtù private con la giustizia pubblica. Sei ingenuo o solo ipocrita?». Ecco, o ingenuo o ipocrita. Resnais lo fa definire «un uomo tragicamente imcompleto», ma non se la sente di giudicarlo, cosi come non sa giudicare Clive. Anche Resnais è un “mezzo rivoluzionario”, e al tempo stesso uno cui stanno a cuore i “valori” elencati da Claude. Resnais è un intellettuale spaventato e straziato dalla politica. Come i musicisti di La vergogna di Bergman (un'altra citazione di Bergman; un altro autore spaventato dalla politica) il regista Resnais ha paura di essere compromesso personalmente, fisicamente, nel gioco della violenza. La contraddizione di Resnais è quella di celebrare l'azione e allo stesso tempo di tenersene fuori, di giudicare con occhi sofisticati gli accadimenti, di non accettare il coinvolgimento.

Il “codice morale” e il gioco come alibi - La tentazione di chiuderli, gli occhi, è forte di fronte a tante cose sgradevoli e imbarazzanti. Eccoci dunque alla ricerca di un “codice morale”. Questa espressione viene usata tre volte, nel film, è una specie di filo rosso che lega gli avvenimenti tentando di giustificarli. Siamo alla ricerca dell'alibi. A quindici anni, ricorda Clive, Claude gli aveva chiesto: «Non credi, papà, che per diventare adulti si debba scoprire un codice morale? Qualcosa di tanto assoluto quanto una proposizione logica?». Che bello sarebbe, affidarsi a questa “logica” rigorosa e prefissata, a questa “categoria” cui basta obbedire ciecamente per essere sollevati dalle scelte, dalle fastidiose compromissioni con la propria coscienza, dalle contraddizioni del reale! Ma è lo stesso Claude a confessare la sua sconfitta: «Avevo ormai capito che la ricerca di un codice morale si arresta di fronte all'incomprensibile». Mentre Clive per contro, non si arrende: «Quello che sto cercando è un codice morale», dice durante la riunione di famiglia, e da lui, un pragmatico, non ce l'aspettavamo. Lo si vaporizza intanto, il codice morale, stordendosi, rifugiandosi in un universo il gioco, la fantasia, illudendoci di dominare le cose e gli eventi. Clive è privilegiato in quanto scrittore, e al suo istrionismo, al suo illusionismo che richiama talvolta quello di Orson Welles in F for Fake (il film che Welles costruisce con gli elementi della sua vita e con quella dei suoi amici) si sovrappone un altro prestigiatore, Resnais.

Providence/Provvidenza/Immanenza - E poi il gioco surroga la creazione, e chi gioca, annodando e sciogliendo i destini, si sostituisce alla Provvidenza. “Providence”, si chiama il maniero di Clive, specie di Walhalla, di Paradiso di un dio che tira i fili delle sue creature (i figli-personaggi, ma anche la moglie e la nuora, “deformate” a immagine dei rispettivi consorti) ma che è pieno di paure. Ma al brindisi dopo le schermaglie e le giustificazioni Clive afferma perentorio una proposizione di grande fierezza: «Niente è scritto». Anche Stavisky l'aveva affermato, anche il rivoluzionario Diego di La guerra è finita. Ai congiunti che gli augurano lunga vita, Clive raccomanda di non prodursi in baci e abbracci, di tralasciare i commiati: l'importante è andarsene con dignità come si è tentato di vivere con dignità, di «andare nudo alla tomba». Però intanto non ci si deve alzare dal tavolo di gioco prima di aver finito la mano: nella battuta finale del film, Clive esprime una sua filosofia spicciola ma di concreta saggezza: «Credo ci sia il tempo per bere un altro sorso». E che il vino sia immagine della vita è provato dal modo con cui, avendo finito la bottiglia di vino in attesa dei suoi ospiti, Clive aveva commentato: «Ecco il primo morto della giornata. Chi sarà il secondo?».