Concorso

Disco Boy di Giacomo Abbruzzese

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In Africa un gruppo di guerriglieri dorme placidamente in attesa di un altro giorno di lotta. In Europa un autobus di tifosi bielorussi si appresta ad attraversare il confine con la Polonia per assistere a una partita di calcio. Aleksei e Michail, però, hanno un progetto diverso. Poco dopo aver passato la frontiera i due si allontanano: sognano una fuga che li porti verso Occidente. Ma durante il percorso, nell’attraversamento di un fiume, Michail muore mentre Alex raggiunge la Francia con il cuore gonfio di tristezza e un impalpabile futuro davanti agli occhi. Ad accoglierlo tra le sue braccia c’è solo la Legione Straniera, coacervo di diseredati in cerca di un posto, per quanto marginale, nel mondo con il sogno di una cittadinanza francese da conquistare. Aleksei, diventato Alex (nome asetticamente universale, adatto per chi non ha più una patria), si aggira sperso tra i suoi commilitoni: senza terra né ideali, immerso in un presente da masticare veloce, in un eterno “qui e ora” che atterrisce. Dall’altra parte del mondo incontrerà – in una missione delicata volta a liberare un ostaggio – il suo specchio: Jomo, un combattente del Delta del Niger che alla propria terra e alla sua preservazione ha dedicato la vita, uno dei soldati visti dormire nella scena iniziale del film.

Alex e Jomo sono speculari, opposti ma a loro modo complementari e nel loro fugace e tragico incontro si percepisce l’ipotesi di un’unità tra anime spezzate, tra chi si immola in nome di un’idea e chi quell’idea non sa neanche pensarla, costretto in un ruolo di pura azione. Uomini destinati a combattere fino alla fine del mondo, fissati in ruoli predestinati che il fato ha imposto loro, simboli di lotta e solitudine, chi nella consapevolezza della propria battaglia, chi come emblema di uno sradicamento quasi metafisico. Disco Boy, opera prima di finzione di Giacomo Abbruzzese, italiano trapiantato a Parigi, parte dalla descrizione di due identità contrapposte per abbandonarsi a un viaggio estatico, sempre sul filo del sogno e dell’ipnosi, che attraversa il mondo contemporaneo dove le barriere sono innanzitutto interiori, psichiche prima ancora che geografiche. Dopo l’incontro fatale con Jomo, Alex si ritrova a vivere una vita quasi parallela, alternativa, nei labirintici locali techno di Parigi, dove frammenti di quell’esperienza africana sembrano riaffacciarsi ai suoi occhi, ricomporsi, assumere significati inattesi.

Disco Boy è un film antilineare, che costruisce una ciclicità imperfetta, tramando una narrazione consapevolmente claudicante, suggerita, impalpabile. Un film di suggestioni più che di suggerimenti, di incanti più che di fatti. È nelle immagini che Abbruzzese cerca un senso, nello stupore lacerante in cui sembra annegare Alex (Franz Rogowski, splendidamente enigmatico e sfuggente), nelle epifanie contenute in un ballo quasi tribale, nelle luci accecanti dei neon dei locali, nella contrapposizione quasi ontologica tra Natura e Storia, in una solitudine e in uno spaesamento dal carattere quasi metafisico. Abbruzzese costruisce, anche grazie a un lavoro sbalorditivo della direttrice della fotografia Hélène Louvart, un percorso accidentato, mai rassicurante, con suggestioni – a volte fin troppo dichiarate – che spaziano da Claire Denis a Kubrick, da Camus a Coppola, in un gioco labirintico che raddoppia l’inafferrabilità del racconto e del suo protagonista. La musica elettronica di Vitalic, che si impossessa via via del suono e dell’atmosfera del film, induce a una trance quasi necessaria alla decodificazione di un film certamente imperfetto e diseguale ma originale e spiazzante, liquido, inafferrabile. Fatto della stessa materia – della stessa luce, degli stessi suoni – di cui sono fatti i sogni.