Concorso

Sur l'Adamant di Nicolas Philibert

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In principio fu Géricault, con il suo ciclo degli “alienati”, in un momento in cui si cominciava a suggerire la necessità di una cura per le malattie psichiche e non l’internamento. Erano gli anni ’20 dell’Ottocento, la fotografia sarebbe arrivata di lì a poco, il cinema alla fine del secolo: la pittura era ancora lo strumento più efficace per raccogliere e comprendere l’interiorità, i moti dell’animo avrebbe detto Leonardo, di queste persone. Alla Salpetrière giravano Jean-Étienne Esquirol e Étienne-Jean Georget, psichiatri riformisti, propugnatori di una legge che prevedeva almeno una struttura ospedaliera psichiatrica per ogni dipartimento. Sono passati duecent’anni, la riflessione sui problemi della mente è passata attraverso la psicanalisi e l’antipsichiatria, e i “matti” sono stati liberati, come ci ricordavano 47 anni fa Agosti, Bellocchio, Petraglia, Rulli in Matti da slegare, che fu presentato proprio alla Berlinale, al Forum. Di acqua ne è passata sotto i ponti, sul Po, sulla Spree e sulla Senna, ma il cinema del reale, il documentario, il cinema-verità, quale che sia la prospettiva che si voglia scegliere, non ha mai scordato di confrontarsi con interesse costante con i disturbi della psiche e con le persone che li vivono: la pittura, tutt’al più la praticano loro stesse, insieme al disegno, alla musica, alle altre arti, proprio come accade anche in Sur l’Adamant di Nicolas Philibert, che alla 73ª Berlinale ha intascato l’Orso d’oro.

L’Adamant non è l’Atalante, ma è comunque sulla Senna, una struttura diurna per la terapia dei disturbi psichiatrici attraccata alla riva (alla rive droite), a pochi metri dal Ponte Charles de Gaulle, non distante dal Louvre o dal Musée d’Orsay. È lì dal 2010, realizzata da Gérard Ronzatti e dalla sua équipe secondo i più alti standard di sostenibilità ambientale, e grazie ad aspetti raffinatissimi d progettazione, come i deflettori automatizzati che filtrano il riverbero che arriva dalle acque, sembra un organismo galleggiante, che ogni giorno apre le porte a un nutrito gruppo di pazienti e di terapeuti. Eppure l’Adamant, complici queste caratteristiche e forse la trasparenza a cui allude il nome (quella del diamante), è così invisibile da non essere segnato, dopo 13 anni, sulla cartografia ufficiale, dove sono evidenziati i caffé e gli hôtel galleggianti, o servizi d’altro genere, come la prefettura.

Philibert, da sempre incuriosito e attratto dalle realtà marginali, come era Essere e avere (2002) o isolate, come Nel paese dei sordi (1992), decide di dare visibilità a questa struttura, ci sale, come esplicita il titolo, e si fa accogliere e trascinare dalla vitalità, dai silenzi, dalle tirate torrenziali dei suoi ospiti, dal lavoro che quotidianamente si svolge a bordo. E lo fa con la tecnica e lo stile di osservazione che lo accompagnano da sempre, mettendosi in prima persona dietro la macchina da presa, con una piccolissima équipe, raccogliendo parole, sguardi, interrogativi e momenti creativi, incorporando interpellazioni dirette e interrogativi latenti. Da subito instaura un posizionamento paritario tra sé, i pazienti e terapeuti, tanto che fin dalla scena iniziale, dove un uomo che canta con la giusta energia e una vocalità magari non del tutto all’altezza una hit dei Téléphone del 1979, non è immediatamente chiaro dove ci si trovi – l’ipotesi del karaoke per entusiasti sfiora per un istante lo spettatore –, mentre nella scena successiva il doppio primo piano di terapetua e paziente, intente a discutere questioni tecniche e amministrative, azzera ogni gerarchia. E, proseguendo, il montaggio tenderà a silenziare i terapeuti, o sostituirsi ad essi, mettendosi in ascolto delle singole storie, delle singole ossessioni, dei silenzi creativi. Il tutto con grande rispetto, con grande empatia, con sincera curiosità.

Tuttavia, per quanto le singole persone possano essere irresistibili, e la struttura della chiatta, l’organizzazione delle sue funzioni siano un elemento di unicità, non c’è molto che non sia già stato raccontato dal cinema del reale negli ultimi cinquant’anni, in film più o meno piccoli. Come era, un esempio tra tantissimi, Quando capita di perdersi (2005), di Sergio Basso, che immergeva i suoi protagonisti nella nebbia dell’appennino romagnolo. E la nebbia (attesa, cercata, sul velo dell’acqua della Senna) chiude anche il film di Philibert, azzerando ulteriormente le differenze. Il rischio, però, è che proprio questa rinuncia a un principio gerarchico, che ovviamente fa riflettere ancora di più su come funziona l’organizzazione della materia nel cinema documentario, restituisca una galleria di ritratti, alcuni più irresistibili di altri, duecento anni dopo Géricault, a bordo di un’ordinatissima ed efficiente Zattera della Medusa, che punta forse a essere una Narrenschiff, una Nave dei folli moderna (e nel poster ufficiale la struttura prende la forma di una nave, effettivamente, che solca le acque della Senna), che abbandonati per ovvie ragioni i toni satirici dell’originale quattrocentesco, ha comunque l’ambizione di raccontarci qualcosa del mondo che sta fuori; quel mondo che non sa nemmeno che l’Adamant esiste.