Concorso

Roter Himmel di Christian Petzold

focus top image

«In my mind/In my mind/Love’s gonna make us, gonna make us blind/We’ll be living in a place we like/What’s gonna make us/Gonna make us find?» questo è il testo di In My Mind (Nella mia mente) canzone dei Wallners, una band dreampop viennese, che apre e chiude Roter Himmel (Cielo rosso), il nuovo film di Christian Petzold. Nulla è lasciato al caso nel cinema (e nella TV) del cineasta berlinese (d’adozione), lo avevamo già ricordato in occasione dell’uscita del suo Undine: alla fine della proiezione, le parole di questo brano, lo stato mentale che queste evocano, sono lì a ricordare che quella che si è appena vista è un’opera di finzione, e come tale è generata innanzitutto nella mente del suo autore, che decide di dotarla di un’intonazione delicatamente atemporale, di uno switch narrativo potente, di un gruppo di personaggi che risuonano con altri personaggi che l’autore stesso ci ha regalato negli ultimi decenni. O forse quelle parole stanno a suggerire che molto di quello a cui si assiste nel film è filtrato dalla soggettività, dalla mente di almeno uno dei personaggi, che di mestiere fa lo scrittore. Ma non preoccupatevi, è tutto più lineare di quel che potrebbe sembrare.

Una storia (abbastanza) semplice: due amici, Felix (Langston Uibel) e Leon (Thomas Schubert), attraversano una foresta in macchina per raggiungere la casa al mare, sul Baltico, appartenente alla famiglia del primo; ma il motore ha un problema, e i due devono lasciare l’auto e raggiungere la destinazione a piedi, attraverso una scorciatoia tra gli alberi, portando i bagagli a mano. Già qui, le coordinate della fiaba, del sogno, una formula da narrativa di genere, del thriller, se non dell’orrore. Presto disattese. Leon deve scrivere, e prepararsi a discutere il suo secondo romanzo con l’editore, mentre Felix deve allestire un portfolio per candidarsi all’Accademia. Ma, nella casa, dove speravano di poter tranquillamente lavorare ai propri obiettivi, trovano già installata l’effervescente – solo in un secondo momento si renderanno conto anche di quanto è bella – Nadja (Paula Beer), ospite della madre di Felix, che si è dimenticata di avvertirlo, con conseguente ridimensionamento degli spazi, della tranquillità, della libertà. Di lì a poco entrerà in scena anche Devid (Enno Trebs), con la “e”, un’eredità delle storipiature che nella DDR si applicavano ai nomi inglesi. Lei vende gelati sulla spiaggia, lui fa il bagnino, e a quanto pare, la notte, si intrecciano in rumorosi amplessi. Quegli amplessi che, insieme alla necessità di lavorare, di riparare il tetto della casa, di distrarsi con una nuotata al mare o di riposarsi serenamente, contrastano con l’abulia scontrosa, tossica, che paralizza Leon: se va al mare, controvoglia, si stende in spiaggia vestito di tutto punto, se rimane sotto la pergola a cercare di riordinare le carte si fa cogliere dal sonno. Gli incendi estivi che minacciano la foresta, il cielo rosso del titolo, sono ancora una preoccupazione lontana, un bagliore astratto, qualche canadair che passa in lontananza. Ma mentre gli amici sembrano averne una coscienza, pur senza allarmisimi o paranoie, Leon è invischiato nella revisione del suo romanzo, Club Sandwich, che non procede; e in fondo lui sa che questo libro non va, e per questo teme ogni minima critica. Una cosa è abbastanza certa: la critica che più gli fa male è quella della bella Nadja, magari non perché la ritiene una “semplice gelataia” come la definisce ad un certo punto, quanto piuttosto perché è per colpa sua che sta diventando, di giorno in giorno, sempre più pallido.

Si deve a Simone Bär, la donna che ha dato un volto e un corpo ai personaggi di Petzold fin dall’inizio degli anni 2000, la casting-Frau del cinema tedesco degli ultimi vent'anni, scomparsa poche settimane fa e a cui il film è affettuosamente dedicato, il merito di avere scelto il corpo bolso e il viso costantemente imbronciato di Thomas Schubert per dare vita a questo giovane scrittore in panne. Su questo volto, sui primi e primissimi piani, si stratifica una quantità di reazioni sfiduciate, la sua fisionomia si fa letteralmente specchio della sua mente, e perciò controcampo impotente della vita degli altri. Di controcampo, guardandosi dall’usare il termine tecnico, parlano d’altronde lui e Felix, quando quest’ultimo espone il tema del proprio portfolio: una serie di persone che guardano il mare, dove allo scatto di spalle, semisoggettivo, di chi sta guardando le onde del Baltico, dovrebbe contrapporsi uno scatto del volto di chi sta fissando le acque: “non sta guardando il mare, sta guardando te che gli fai una foto”, lo rimprovera stizzito Leon. Ma Felix, consapevole dell’artificiosità connaturata al concetto stesso di stacco e di controcampo, o forse avendola semplicemente intuita, proseguirà su questa strada, senza dare troppa corda all’amico, provando a vivere, anche eventualmente sbagliando.

Poi arriva Helmut (Matthias Brandt, volto storico di Polizeiruf 110, di cui con Petzold ha girato tre episodi), l’editore, e con lui va in scena il flesso drammatico di quella che fino ad ora si era mossa come una commedia. Di fronte a lui peraltro emerge la vera occupazione di Nadja. «Qual è la tua poesia preferita?», domanda Helmut alla giovane. Ovviamente non intende in assoluto, stanno parlando dell’argomento della sua tesi di dottorato, la raccolta Romanzero di Heinrich Heine. Il componimento, che Nadja recita a memoria, è Der Asra, una delle Historien. In italiano perde l’efficacia ritmica, ma qualcosa della sostanza sopravvive: «Ogni giorno la bella / figlia del Sultano camminava su e giù/ Al tramonto, presso la fontana/ dove bianche scorrono le acque.// Ogni giorno il giovane schiavo stava/ Verso il tramonto alla fontana/ dove le acque bianche scrosciano; Ogni giorno diventava sempre più pallido.// Una sera la principessa/ si avvicinò a lui con parole pronte:/ “Voglio sapere il tuo nome,/ la tua casa, la tua stirpe!”// e lo schiavo rispose: "Mi chiamo/ Mohamed, vengo dallo Yemen,/ e la mia tribù è quella degli Asra,/ che muoiono quando amano”». Difficile replicare per iscritto, senza rovinarlo, l’impatto emozionale, il suono del verso tedesco, che Nadja ripete per due volte consecutive, a maggior ragione per il riverbero che ha sulle tensioni che si sono generate tra i personaggi, e per quello che sta per accadere. Quello che sopravvive di quei versi nella nostra lingua è la semplicità del contenuto narrativo del componimento, un’immagine formidabile, da Mille e una notte, e il sistema retorico, costruito sulla reticenza, che fa esplodere il potenziale (melo)drammatico nell’ultimo verso, Welche sterben, wenn sie lieben, dando un significato preciso al pallore dello schiavo descritto qualche verso sopra. Pallido, come Leon.

La vita, l’amore, la morte, intrecciati, come le dita dei due amanti colti dalle fiamme in mezzo al bosco, come i corpi di altri amanti, più antichi, colti dall’eruzione del Vesuvio a Pompei, gli stessi che sono un’epifania per la Bergman di Viaggio in Italia. Campo e controcampo. Ma, soprattutto, l’immagine e la parola, la poesia e la “necessità di racconto”, intrecciati indissolubilmente come in tutti i film di Petzold; che qui sembra ricordarci una volta di più come per sua natura l’immagine cinematografica non possa evitare il rischio di essere poetica.