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Difficile trovare oggi, nel panorama cinematografico mondiale, qualcuno più libero, coraggioso e addirittura ambizioso di Albert Serra. Si tratti di un film, una pièce teatrale – come la geniale Liberté, presentata nel febbraio 2018 al Volksbühne di Berlino – o un’installazione d’arte – impressionante Singularity, esposta nel Padiglione della Catalunya durante la Biennale d’Arte di Venezia nel 2015.

Capace di affrontare senza alcun timor reverenziale Cervantes e De Sade, il Vangelo e Jean-Pierre Léaud, di permettere a Helmut Berger e Ingrid Caven di essere ancora una volta straordinari, Albert Serra non fa che prendere dei “monumenti” della cultura condivisa e decostruirli, mostrandone la natura arbitraria, patetica e misera, ma al tempo stesso umanissima, per renderli nuovamente sublimi, facendo dimenticare a chi guarda che poco prima il gioco era stato svelato e con esso la sospensione dell’incredulità. Nell’opera di Serra tutto viene mescolato in maniera tale che lo spettatore, pur di fronte alla più evidente messa in scena, non possa fare a meno di credere si tratti della realtà. Il potere evocativo delle sue immagini e del suo cinema è, da questo punto di vista, pressoché inarrivabile.

La sua ultima fatica, in attesa di vedere la versione cinematografica di Liberté, è Roi Soleil, già vincitore del FIDMarseille e presentato al Festival de Cine de Sevilla nella sezione Revoluciones Permanentes. Il film nasce in realtà da una performance tenutasi lo scorso anno alla Galeria Graça Brandão a Lisbona. Il protagonista Lluís Serrat, presente in tutti i lavori di Serra, nei panni del Re Sole – figura già affrontata dal regista ne La Mort de Louis XIV – si aggira dolorante e moribondo nelle sale della Galeria, lamentandosi. Nonostante la sofferenza che pare attraversare tutto il suo corpo, senza dargli un istante di pace, il Re Sole non smette di mangiare e bere – a un certo punto con una specie di canula collegata a un’ampolla, sembra bere i suoi stessi succhi intestinali, provando se non sollievo, almeno piacere.

Il Louis XIV interpretato da Léaud era a sua volta agonizzante e ormai pressoché cieco. Sdraiato nel letto, sotto gli sguardi vampireschi degli astanti, valletti di corte e nobili, medici incapaci di curarlo e familiari, esalava gli ultimi respiri, mostrando la caducità del potere. Non diverso il Re incarnato da Serrat, che in maniera maggiormente evidente e ironica, più sente avvicinarsi la fine, più sembra non voler abbandonare gli istinti vitali – mangiare e bere – che però diventano una specie di compulsione del “corpo senza organi”, “antiedipico” deleuziano, già evocato dal Casanova de Història de la meva mort.

E di fronte a un corpo completamente in balia delle sue pulsioni e del suo decadimento, chi guarda il film, dopo quasi un’ora, arriva se non a sentire una specie di empatia nei confronti di quell’uomo prostrato, per lo meno una specie di spossatezza, come se a sua volta facesse fatica a tirare il respiro fino in fondo. E proprio nel momento in cui sarebbe pronto a lasciare la visione, grazie a un breve ma significativo movimento di macchina, si rende conto (pur sapendolo fin dall’inizio) di essere di fronte a una performance e dunque a una messa in scena “evidente”. Vedere finalmente delle persone intente a osservare quel che accade cambia immediatamente la prospettiva con cui guardare e pensare il film, che diventa immediatamente una grande e profonda riflessione sulla messa in scena, ma anche su come possa essere poetico e violento al contempo chiedere e pretendere da un corpo un “lavoro”.

Nell’istante in cui Lluís Serrat sembra essersi addormentato o aver perso i sensi o addirittura essere deceduto, vedere il regista accorrere vicino a quel corpo inerme, assicurarsi delle funzioni vitali e infine rassicurare il pubblico ma al contempo congedarlo, annunciando la fine della performance (già prevista in quel momento) non fa che rendere il film l’ennesima geniale riflessione sulla messa in scena costante, che per il suo potere, potrebbe protrarsi anche al di là delle morte.