L’epica narrativa dedicata al cinema da Mark Cousins non ha eguali. Chiamiamola magnifica ossessione, compulsione passionale, curiosità famelica, qualunque cosa essa sia, quella incarnata dal cineasta, storico, critico, viaggiatore e scrittore nordirlandese è la rara capacità di trasformare qualunque storia in una grande storia. Addirittura enorme se si chiama The Story of Film. Appunto, epica.
E benché ogni sua storia abbia a che fare con il mondo dello sguardo, delle immagini, delle arti, e per estensione del visibile, ciò che sorprende è la sua capacità di non ripetersi mai, nonostante le apparenze formali sembrino indicare il contrario: se stesso come io narrante, il missaggio poetico/dadaista/provocatore dei suoi essay, il desiderio incessante di trovare un fil rouge “anarchico” (squisitamente modernista) nelle tessere segrete dei racconti.
In realtà pare che il vero segreto di Cousins sia racchiuso in uno dono, rarissimo e a lui stesso quasi ignoto: quello di vivere ogni sguardo raccontato come una rivelazione che riceve – anzitutto – per se stesso. Tanto si tratti di un albero qualunque osservato dalla finestra di casa, quanto di un capolavoro di Tarkovsky. Ne derivano le Stories ipnotiche di lunghezza fluviale, concepite per essere degustate nel tempo, come dei mantra formato ballate dall’accento nordirlandese/scozzese in cui il corpo narrante è sempre in campo, vuoi vocalmente, vuoi fisicamente. E qui, ecco emergere un secondo dono, non meno entusiasmante del primo: Mark Cousins è un corpo onnipresente incapace di essere egocentrico e narcisista. Perché il racconto nasce dal di dentro, strettamente connesso al senso della self-wonder di cui sopra.
L’ultima in senso cronologico tra le sue Stories è The Story of Looking, presentata al 18° Biografilm Festival - International Celebration of Lives (Bologna, 10-20 giugno), nell’ambito di un omaggio a cui ha presenziato anche l’autore premiato con il Biografilm Celebration of Lives Award 2022 alla carriera, una carriera che comunque è potentemente in progress.
Nell'incontro moderato a fine proiezione dall’associazione culturale Red Shoes, dedicata alla cultura cinematografica britannica, Cousins ha confessato che il film è nato “anche da riflessioni sulla vecchiaia”, quel timore ancestrale e universale dell’ageing che il sentire contemporaneo vuole cancellare. Cousins, invece, lo celebra. E lo fa con un accadimento personale legato a un proprio occhio, improvvisamente ammalatosi di cataratta precoce. Nulla di più tragico e insopportabile per uno studioso dello sguardo, anzi un atleta del visibile, è l’idea di non poter più usare la vista.
Partendo dunque da se stesso, dalla propria fragilità denudata nel bianco letto di una buia stanza, Cousins riemerge dall’incubo preventivo per innalzare una lirica teorica e passionale sul creato. E al gesto (riflessivo) del vedere (vedersi), guardare (guardarsi), osservare (osservarsi), rilevare umano, dalla nascita alla morte. L’operazione risulta sublime nel suo solo apparente candore, un saggio raffinato, esemplare e paradigmatico a ricordarci che la “storia del nostro guardare” (così potrebbe tradursi) non ha limite spazio/temporale alcuno, laddove la si connette al gesto della riproducibilità immaginaria e ai dispositivi che la permettono. In altre parole, alla trasmissione del ricordo, ab origine.
The Story of Looking sarà presto disponibile sulla piattaforma streaming IWonderfull.it.