I segreti di Brokeback Mountain

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Questa sera  martedì 11 luglio  alle 21:15 su TV8 sarà trasmesso I segreti di Brokeback Mountain, il più celebre fra i film di Ang Lee, vincitore del Leone d'oro alla Mostra di Venezia del 2005. Riproponiamo un lungo estratto della recensione che Luca Malavasi scrisse per lo Speciale Venezia di Cineforum 449 del novembre 2005 (pdf acquistabile qui).


Non si sbaglia troppo o del tutto a definire Brokeback Mountain, il film di Ang Lee premiato con il Leone d’oro, un western: ci sono i paesaggi sconfinati – posti, tra l’altro, sia in apertura che in chiusura –, ci sono i cowboy e le mandrie, i rodeo e le catture al lazoo, il turpiloquio e i modi bruschi di uomini costretti a vivere immersi in una natura bellissima e spietata. La semantica del genere c’è tutta o quasi, anche se in molti casi filtrata attraverso un immaginario che deve qualcosa più al cinema che alla realtà, con la conseguenza di produrre un effetto sospensivo volutamente in conflitto con le date secche (1963-1983) che racchiudono il racconto.

In effetti, è proprio l’urto inevitabile dello “spirito western” (e i suoi simboli, o feticci) con la contemporaneità e l’“inurbamento” (e la secolarizzazione) dell’epopea uno dei motivi di maggior interesse del film e del libro da cui è tratto, un breve racconto (sottilmente ironico) di E. Annie Proulx, edito da Baldini&Castoldi col titolo di «Gente del Wyoming» e ristampato di recente. Brokeback Mountain è così, in primo luogo, un bellissimo post-western, nel senso esat
to del termine: perché prova a 
fare i conti con quanto resta, sopravvive e ancora agisce non soltanto dell’immaginario ma dell’afflato epico, utopico e ambizioso e dell’attitudine inquieta 
e un po’ borderline che sono all’origine dell’avventura, reale e cinematografica, dei personaggi
 della frontiera. Solo che, cent’anni dopo, senza più inesplorati confini da superare e 
terre vergini da conquistare, quell’afflato non può che ripiegarsi verso l’ultima e unica terra incognita ancora a disposizione dell’uomo (e anzi divenuta sempre più incognita lungo il Novecento), vale a dire l’uomo stesso.

Osservati da questo punto di vista, Jack e Ennis, «entrambi ragazzi di campagna che avevano lasciato la scuola alle superiori, senza prospettive, rotti al lavoro duro e alle privazioni, entrambi zotici di modi e di linguaggio, abituati a far vita spartana», sono tutto quel che resta del western; e il loro amore violento, animale, doloroso, inevitabilmente intermittente e sottratto alle logiche della routine e della relazione, quel che sopravvive dello spirito western. Sono il residuo commovente e anacronistico di un modo di combattere e amare, di tendere i confini dell’esistenza e dell’esistente, di sfidare se stessi e gli altri che ha avuto nel duello armato, e ha adesso nel faccia a faccia con le proprie paure e debolezze, complessità psicologiche e affettive, ossessioni e desideri, il proprio naturale punto d’arrivo.

Ne esce un melodramma che di western conserva inoltre la secchezza e la modularità del racconto, con gli incontri scontri tra i due – sempre attraversati da un’attrazione che contiene al suo interno un profondo senso di disagio e repulsione – a scandire il passare del tempo. Prima ragazzi e poi giovani uomini, Ennis e Jack (Heat Ledger e Jake Gyllenhaal, che il regista fa recitare benissimo) si rincorrono e amano sullo sfondo di paesaggi incantanti e solo sfiorati dalla presenza dell’uomo (immobili, silenziosi e privi di fuori campo, come certi quadri di Hopper, già formato cartolina), e si accampano sul bordo di un lago o ai margini di una pineta di montagna come la prima volta, ripetendo idealmente gli stessi gesti e ricostruendo le stesse scenografie del loro incontro iniziatico a Brokeback Mountain, durante un’estate in cui erano due ventenni senza futuro e storia, con le idee molto precise su quello che non erano («Io non sono gay», si dicono e ripetono dopo la prima, sbrigativa notte) e molto meno chiare su quello che stavano diventando.

Il film, iterativo e progressivo a un tempo, segue le esistenze di Jack e Ennis tra un matrimonio fallito e l’altro, i figli, le emergenze quotidiane, le mogli sospettose (quella del secondo è testimone di un abbraccio un po’ troppo affettuoso tra i due amici) o semplicemente indifferenti. Western, d’altro canto, è anche la perfetta esclusione dell’universo femminile, che non viene minimamente reintegrato dal coté omosessuale: il legame che unisce Ennis e Jack è tutto maschile, di genere neutro, “depsicolo- gizzato” dal lessico virile e costruito fin dall’inizio, e via via più consapevolmente, per contrasto con le strutture famigliari e affettive, patriarcali e eterosessuali della vita di tutti i giorni; la polarità più tipica del western, che oppone la città alla campagna, la “cultura” alla “natura”, e racconta di quegli spazi d’azione e di pensiero incompiuti come la promessa di una vita migliore, è qui (ri)trovata come lezione e tesoro, ma anche come finzione e fantasia (tanto che, alla fine, nel lessico iperrealista di Ang Lee, si insinua un sogno di sapore fantastico).