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«Ultime cose» ma anche, forzando un po’ la semantica, «le cose che restano». Ovvero tutto quanto ha preceduto la comparsa dell’uomo e la sua Storia e che a esse sopravvivrà. Batteri, acari, molecole, atomi, forze e campi elettromagnetici e, soprattutto, pietre, rocce, sassi, cenge, macigni. Presentato a Filmmaker, il film di Deborah Stratman, da sempre attiva sul crinale tra ricerca documentaria e tensione sperimentale (e con in faretra almeno un grande film: The Illinois Parables del 2016), è una specie di cosmologia alternativa, che non esclude la presenza umana ma la relega ai margini e la parcellizza. Il flusso d’immagini spazia dagli ingrandimenti al microscopio che assumono il carattere di forme astratte e senza tempo a riprese in 16mm di enormi paesaggi calcarei da contemplare come frammenti di land art.

Sembra di assistere a una riscrittura del concetto biologico di evoluzione, dove il rapporto di dipendenza tra organismi e ambiente si modifica continuamente e ai processi di adattamento e variabilità si sostituisce la serena compostezza di ciò che invece rimane sempre uguale a se stesso, dall’inizio alla fine dei tempi, contemporaneamente «prima e ultima cosa». Questo perché il cinema di Deborah Stratman, come ha scritto Martina Mele su Lo Specchio Scuro, è «un dispositivo tecnico in grado non solo di determinare il modo di conoscere umano ma anche e soprattutto il contenuto stesso della conoscenza». Proprio per questo le sue immagini sono apparentemente oggettive, fisse e immote, esortano all’osservazione prima e alla riflessione poi.

L’esperienza della visione di Last Things si trasforma quindi in un invito a riscrivere le gerarchie dell’esistente (un po’ come, in fondo, un altro film presentato sempre a Filmmaker, L’albume d’oro di Samira Guadagnuolo e Tiziano Doria), rimettere in prospettiva il mondo e l’uomo così come il soggetto e lo spazio. Lo confermano in fondo le parole lette in voice over dalla geologa ed ecologa Marcia Bjørnerud (brani del celebre saggio/capolavoro La scrittura delle pietre di Roger Caillois) e dalla regista Valérie Massadian (estratti da un racconto dei fratelli Joseph-Henri Honoré Boex e Sérafin Justin François Boex [scritto con lo pseudonimo J.H. Rosny] i cui protagonisti sono una razza extraterrestre dal corpo di forma cilindrica composti di materiale inorganico/minerale), che punteggiano il film come una chiosa poetica.

Certo, 50 minuti sono troppo pochi per esplorare la vastità filosofica dei concetti messi in campo e sistematizzarli in un ordine coerente. Ma forse è proprio raccogliendone le suggestioni, captando il senso delle giustapposizioni d’immagini e suoni ed esplorandone l’affascinante geografia «de-antropizzata» che lo spettatore può creare un vero rapporto dialettico con il film, immergersi tra le sue correnti e forse, alla fine, assumere nuove consapevolezze.