Con la morte di Lucia Bosè (nata a Milano il 28 gennaio 1931 e morta a Segovia, in Spagna il 23 marzo 2020), il cinema italiano perde uno degli ultimi volti emblematici sopravvissuti dagli anni aurei (non soltanto '50 e '60 ma anche '70).
Emblematico anche perché paradossale. La bellezza dei suoi lineamenti delicati e cesellati aveva una fisionomia aristocratica: non a caso il primo regista che la notò (mentre lavorava come commessa in una pasticceria) fu Luchino Visconti «col suo sguardo da falco» (come lo definì lei stessa). Non la scelse mai per un suo film, ma fu Visconti a suggerirla a Giuseppe De Santis che la prese per Non c'è pace fra gli ulivi (1950).
Il paradosso risiede nel fatto che Lucia Bosè era di estrazione contadina (il padre era originario di San Giuliano Milanese, poi si trasferì a Milano dove lavorò come operaio in una fabbrica di vernici) e di condizioni molto umili - lei stessa racconta che «eravamo poveri in canna». Alla bellezza raffinata e pura del suo viso si univa un corpo statuario e prorompente: «Ero lunga come la fame. (…) e c'era da fare e da dire per tenermi dentro agli abiti. Avevo sempre le ginocchia fuori dalla gonna e i seni che stavano a malapena dentro il giubbino».
Grazie al connubio irresistibile di quel viso e di quel corpo vinse il concorso di Miss Italia e Tempo pubblicò il suo primo piano in copertina, rendendola una celebrità dall'oggi al domani. Se il primo ruolo, già da protagonista, sotto la regia di De Santis è quello di una ragazza popolana, Michelangelo Antonioni, al suo debutto nel lungometraggio, le affida invece il personaggio di una giovane signora altoborghese in Cronaca di un amore (1950), plasmando le sue acerbe doti recitative con metodi duri e talvolta brutali. Così la bellissima esordiente in un film neorealista (De Santis), affronta la sua prima prova difficile (sia pure doppiata da Rosetta Calavetta) in un film che si colloca oltre il neorealismo, in una nuova fase del cinema italiano. Ma Cronaca di un amore è un insuccesso di pubblico e la giovane, atipica “maggiorata” (come venivano definite allora) accresce la sua popolarità passando a un registro più leggero coi successivi È l'amor che mi rovina (1951) di Mario Soldati, con Walter Chiari, Parigi è sempre Parigi (1951) di Luciano Emmer, con Aldo Fabrizi e Marcello Mastroianni, Le ragazze di Piazza di Spagna (1952), ancora di Emmer per ritornare a un ruolo drammatico in Roma ore 11 (1952) di De Santis.
Il personaggio di una giovane diva di umili origini che Antonioni le assegna in La signora senza camelie (1953) non era destinato a lei ma sembra autobiografico, dato che in quegli anni, con Eleonora Rossi Drago, Gina Lollobrigida e poche altre, la Bosè è, a soli ventidue anni, uno dei nomi di maggior richiamo popolare. Dopo l'insuccesso di pubblico senza appello della Signora senza camelie, la giovane diva rinsalda la sua popolarità con film più commerciali (fra i quali Accadde al commissariato, 1954, di Simonelli) ma già due anni più tardi affronta parti più ambiziose sotto la regia di Juan Antonio Bardem (Gli egoisti / Muerte de un ciclista, 1955), Francesco Maselli (Gli sbandati, 1955), Luis Buñuel (Gli amanti di domani / Cela s'appelle l'aurore, 1956). Prima di giungere ad una vera consacrazione come attrice, a metà degli anni '50 sposa il celebre torero Luis Miguel Dominguín e decide di abbandonare il cinema. Trascorre un decennio nel corso del quale in Italia si impongono altre dive (Sophia Loren, Claudia Cardinale etc.) e quando, alla fine degli anni '60, Lucia Bosè decide di riprendere la sua carriera, il suo statuto è mutato: non è più una diva da rotocalco ma un'attrice che si cala in ruoli non principali, però significativi e intensi, come l'arcaica Glaia dell'apologo preistorico Sotto il segno dello scorpione (1969) dei fratelli Taviani, la malinconica e aristocratica matrona petroniana del Fellini Satyricon (1969) – una delle parti più affascinanti della sua carriera -, l'orgogliosa Viola di Metello (1970) di Mauro Bolognini.
Con l'età e il mutare dei lineamenti, il volto della Bosè ha acquisito una più intensa espressività che viene valorizzata in film dove recita nuovamente da protagonista, come L'ospite (1971) di Liliana Cavani (nella parte di una donna dimessa da un manicomio), Arcana (1972) di Giulio Questi, Nathalie Granger (1972) di Marguerite Duras, Lumière / Scene di un'amicizia fra donne (1976) di Jeanne Moreau, Violanta (1977) di Daniel Schmid. Ma sono interessanti anche i ruoli minori, come quelli in La colonna infame (1973) di Nelo Risi e Per le antiche scale (1975) di Bolognini.
Entrata nella maturità, dopo vari film girati fra Italia, Spagna e Francia, si allontana ancora dai set alla fine degli anni '70 per ritornarvi nuovamente soltanto alla fine del decennio successivo, in parti spesso di anziana matriarca (come in Cronaca di una morte annunciata, 1987, di Francesco Rosi, dove è l'infelice madre della vittima designata). Il suo ultimo ruolo è da protagonista in un defilato film indipendente italo-cileno, One More Time (2013) di Pablo Benedetti e David Sordella, dove impersona un'attrice ottantenne che ritorna nella città cilena dell'infanzia per realizzare il sogno di suo padre (creare una televisione locale). In una delle ultime interviste, aveva dichiarato: «La mia generazione ha fatto i conti con la guerra. Io ho sofferto la fame, ho toccato con mano la miseria, il freddo. Non potrei mai dimenticarmi di quel passato, di quando desideravo fortemente un pezzo di pane da mordere, ma il pane non c’era. (...) Non posso farmi tentare dal materialismo sciocco che impera in questi ultimi anni».