Sean Connery, solitario cinico gaglioffo fighissimo

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La risposta, sui siti, nei giornali, in tv, è stata immediata ed estesa, nonostante tutti avessero celebrato appena due mesi fa (il 25 agosto) il suo novantesimo compleanno. Come se la morte di Sean Connery (avvenuta il 31 ottobre, nella sua casa alle Bahamas, nel sonno: uomo fortunato!) segnasse quasi uno spartiacque nell'immaginario collettivo, un punto di non ritorno, non solo rispetto a un cinema che già da tempo non è più lo stesso, ma anche rispetto a un futuro che è sempre più frammentario, fumoso, indecifrabile.  Non è più tempo di eroi, nemmeno "cattivi" come lui, non è più tempo di Bond forse (anche se Daniel Craig ha fatto egregiamente il proprio dovere, stretto tra due millenni), non è più tempo di solitari-cinici-gaglioffi-fighissimi (e diciamocelo!) che tra una ragazza e l'altra passano il tempo a salvare una qualche patria (e il mondo) da nemici dai pesanti accenti est-europei o dagli occhi a mandorla, da psicopatici assetati di potere o da minacce e virus distruttivi (anche se Dio sa quanto ci servirebbe, oggi, una difesa da queste categorie). Anche i suoi "figli" Harrison Ford e Kevin Costner sono avviati verso una pensione pantofolaia. Gli eroi di oggi hanno spesso una leggera aria stizzita da intellettuali prestati all'action o, soprattutto, le fisionomie tirate a lucido, gli improbabili corpi muscolosi e perfetti di un disegno (o di un video game): i supereroi più o meno mascherati, tra i quali non riesce a emergere nemmeno la faccia intensa di Hugh Jackman e tra i quali non fa testo Robert Downey jr., che comunque ha quasi sessant'anni ed è pazzo, imprevedibile e anomalo.

Sean Connery ebbe, prima di tutto, una faccia. E se il corpo (uno e novanta di altezza e un training da giocatore di football, body builder, ballerino e modello - oltre che marinaio, bagnino, verniciatore di bare, muratore, camionista, e qualsiasi altro lavoro cui potesse aspirare il figlio di un camionista e una donna delle pulizie di Edimburgo) non poteva non saltare all'occhio, sempre un po' costretto, pronto a esplodere dentro agli abiti Savile Row che i Servizi segreti di Sua Maestà gli cucivano addosso, tuttavia furono la faccia, e la durezza, la decisione e l'ironia che ne trapelavano, che invasero e travolsero lo schermo, nel momento in cui affermò di essere Bond, James Bond. Quella sinuosità di movimenti che aveva fatto affermare a Harry Saltzman e Albert Broccoli, rispettivamente, «colpiva che un uomo con le sue dimensioni e la sua struttura si muovesse in maniera tanto elastica» e «si vedeva che aveva le palle», quel miscuglio di eleganza innata e violenza repressa, quella sfida continua che trapelava dai suoi occhi e dalle sue scarne battute, quell'inarcarsi delle sopracciglia quando fronteggiava l'avversario o la preda (entrambi maschi o femmine, e spesso coincidenti, come nel caso di Pussy Galore - e molte altre), tutto passava attraverso un'interpretazione, una psicologia, una storicizzazione. Non disegno, ma carne; non immoto, ma in evoluzione; non stereotipo, ma invenzione. James Bond (quello di Connery non quello di Ian Fleming, che invece immaginava il suo agente simile a sé stesso, un gentleman raffinato e impeccabile che tra una missione e l'altra vive in Giamaica, e che avrebbe voluto David Niven per il ruolo) fu l'eroe "anti" che il mondo in piena Guerra Fredda (e in piena liberazione sessuale e ribaltamento dei costumi) sognava, magari senza saperlo: uno che sta dalla parte giusta, ma è talmente disinvolto da non essere "corretto"; uno che si confronta con le donne e il loro desiderio sessuale, pari al suo, senza inibizioni e preconcetti (e qui non c'è #MeToo che tenga: tutte le donne della saga Bond non sono vittime assoggettate al maschio, ma signore perfettamente consapevoli e desideranti), uno che affronta amici e nemici con la stessa nonchalance difensiva del gunman solitario. Quasi un eroe del West catapultato nella seconda metà del XX° secolo, quello che poi, alla fine, cavalca da solo fuori dall'inquadratura, ma senza la sua malinconia. Trasponendo il tutto dalla cultura British innata, un bad guy in bilico tra la violenza della nobiltà agraria settecentesca, magari impoverita ma sempre arrogante, e la determinazione della working class insorgente (Free Cinema in testa): come se il Monaco di Lewis si fosse trasformato in un angry young man al servizio dei "servizi". Connery fece di Bond l'espressione fisica e fisiognomica di quel sado-masochismo che sta (o almeno stava) conficcato dentro i rapporti tra uomini e donne, tra classe e classe, con il cinismo scherzoso e la sicurezza disinvolta che emanavano dal suo volto e dal suo corpo. Dopo, con Roger Moore, fu un'altra storia, più lieve.

La storia di Sean Connery, invece, continuò, nel suo tentativo titanico di liberarsi di una figura che gli stava mangiando la carriera e l'immagine, e che non voleva lasciarlo andare. Si fa presto a dire  «Never again!» (come disse nel 1971, dopo il suo sesto 007). Quando poi ti offrono 3 milioni di dollari e una percentuale sugli incassi (come accadde nel 1983 per Mai dire mai), magari ci ripensi. Ma in realtà, a quel punto, Connery poteva anche permettersi quel ritorno autocitazionistico (Mai dire mai era il remake di Operazione tuono, con tanto di tango figurato con Kim Basinger). Perché, a differenza di quanto era successso nel 1964, quando Hitchcock, che era inglese e aveva l'occhio lungo, lo scritturò nella parte del ricco e arrogante padrone-seduttore della ladra Marnie, e nel 1965, con il suo primo Lumet, La collina del disonore, angosciante descrizione della violenza militare, la carriera dell'attore nel frattempo si era abbondantemente sganciata ed emancipata dalla figura dell'agente segreto. Non tanto con Zardoz, dove Boorman ne sfrutta soprattutto l'appeal fisico, ma piuttosto con i film in cui Sidney Lumet ne avvia la trasformazione in antieroe a tutto tondo (il ladro di Rapina record a New York, il poliziotto psicho di Riflessi in uno specchio scuro), con la carica proletaria e combattiva del leader dei minatori in lotta contro i padroni in I cospiratori di Martin Ritt, con il fascino selvaggio del Raisuli, il capo berbero del Rif marocchino di Il vento e il leone di John Milius. E qui, cominciano a emergere l'ironia e la malinconia di un attore che si sta trasformando, da eroe, in loser. L'ironia c'era già, in James Bond, ma dopo diventa meno sofisticata (all'inglese) e più diretta (alla scozzese) e soprattutto più autoironica, come nella parte del monaco investigatore Guglielmo da Baskerville di Il nome della rosa di Annaud (e Uberto Eco non può non aver approvato la scelta di 007 per il suo detective) e in quella del professor Henry Jones Sr., che ruba le ragazze e la scena al figlio Indiana in Indiana Jones e l'ultima crociata (e rendiamo omaggio ancora una volta al casting metacinematografico di Steven Spielberg).

Ma i suoi momenti più belli sono quelli in cui la figura eroica cede il passo alla malinconia e agli inganni del tempo. L'eroe delle leggende inglesi che si scopre perdente davanti agli acciacchi dell'età, in quella magnifica elegia dell'amore ritrovato e dell'ineluttabilità della vecchiaia che è Robin e Marian di Richard Lester, e in un altro film di Lester, quasi "gemello" e tristissimo, Cuba, ancora una volta un amore che non si può riafferrare e la Storia che ti passa sopra come un tir. E il loser, bislacco, imbroglione, che viene trascinato proprio dalla Storia (e dall'amore e dai suoi inganni) in una dimensione eroica che non vuole, ma dalla quale non può sottrarsi e alla quale finisce per credere, nel grande L'uomo che volle farsi re di John Huston. E Jimmy Malone, poliziotto irlandese tutto d'un pezzo, isolato, sui generis, "fordiano", che sa fare squadra meglio di ogni altro, ma muore solo, intrappolato nella sua casa modesta, simbolo di tutti gli eroi con una faccia vera e un corpo vero che vorremmo vedere sullo schermo. Per Gli intoccabili di Brian De Palma, Sean Connery vinse il suo unico, meritatissimo Oscar.