Le stanza di Rol

La abuela di Paco Plaza

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Per circa un’ora, La abuela è un mirabile esempio di costruzione della tensione con elementi prettamente filmici, senza che si ricorra ai soliti effetti, speciali e sonori, da sempre approdo comodo e sicuro nelle consuete produzioni horror di medio livello. La vicenda è quella di una giovane modella, Susana, costretta a interrompere la sua carriera parigina in un momento particolarmente propizio per assistere a Madrid la nonna, vittima di un’emorragia cerebrale che l’ha resa un vegetale, sua unica parente fin da quando, durante la sua infanzia, è rimasta orfana a causa di un incidente stradale patito dai genitori. Il mestiere nella scrittura e dietro la macchina da presa non manca di certo: Paco Plaza, che dirige, è uno degli autori di punta del nuovo horror spagnolo (suo il trittico di [Rec], i primi due insieme a un altro grande nome come Jaume Balagueró); Carlos Vermut, autore della sceneggiatura, è abile costruttore di atmosfere tese e raffinate, anche se La abuela è il suo esordio nel genere (il «magical girl» che compare nel film come slogan di una campagna pubblicitaria con protagonista Susana è un auto-omaggio a un lavoro da lui sceneggiato e diretto nel 2014).

La abuela si muove lungo un’inquietante esibizione di reciprocità: da un lato, la prorompente giovinezza della nipote, pronta a spiccare il grande salto verso un’affermazione definitiva nel diventare autentico emblema di bellezza; di contro, la consunzione della vecchiaia della nonna come memento mori di una fine imminente che cancella tutte le immagini fissate precedentemente nella memoria. Plaza e Vermut non mettono a confronto, non creano un’antitesi, piuttosto erodono la vitalità dell’una a vantaggio del parassitismo osceno dell’altra, ostentando in modo pressoché spietato rughe, grinze, gonfiori, varicosità e caducità della carne. Che sia uno scambio e non un’impietosa comparazione appare sintomatico nell’insistenza con cui la regia si sforza di trasmetterne il senso con campi e controcampi fin troppo espliciti, grazie ai quali, tramite la simbolica e onnipresente presenza di specchi, la figura della giovane si incastona nel corpo dell’anziana e viceversa, dando più l’impressione di uno spoiler interno che di un discreto indizio da registrare nel successivo sviluppo della narrazione.

Per aumentare la tensione, nella progressione dello scambio i due autori inseriscono anche il motivo ansiogeno del tempo, in questo caso suggerito ― ma sarebbe più opportuno dire sfoggiato ― con il costante rimando all’immagine dei quadranti di orologi che si bloccano tutti alla medesima ora e che alludono fin troppo esplicitamente alla morte e alla stagnazione di una carriera, su cui si pone il dubbio, ed in questo risiede il reale motivo d’interesse, a chi delle due protagoniste spetti davvero l’una e a chi invece l’altra. Il tutto facendo aleggiare un retrogusto amarissimo sulla tirannia della bellezza e della seduzione, colpevole di calpestare diabolicamente anche gli affetti nel tentativo disperato (qua maligno) di evitare la condanna all’emarginazione della solitudine.

Per un’ora, si diceva, il gioco allestito dalla regia di Plaza funziona egregiamente. La tensione è tutta pazientemente costruita sull’irrazionalità insita nelle questioni finali, su quell’incapacità freudiana di ancorare le situazioni reali che porta alla manifestazione di fantasmi inconsci legati allo sgretolamento del corpo e delle certezze, alla paura dell’ignoto antropologicamente connaturata a ogni individuo. Una risata immotivata davanti a uno schermo televisivo spento, un’ombra sfocata sullo sfondo, un piano medio attonito e imperscrutabile, un fuoricampo tenuto insaturo qualche secondo più del dovuto: la suspense si rispecchia tutta nel volto della nipote Susana (ottima la prova della giovane Almudena Amor), incapace di dare una veste razionale alla vecchiaia della nonna, nell’ennesimo scambio, questa volta di percezioni e angosce, proposto dal film. È invece nell’ultima abbondante mezz’ora che La abuela mostra il suo lato indulgente rispetto alla consueta estetica dell’horror contemporaneo, lasciandosi andare a una serie di acuti effetti sonori, di montaggi ipercinetici da assumere nella loro globalità disturbante, di correzioni digitali e di improvvise manifestazioni urlanti che paiono inaugurare una nuova versione del film e invece sono solo la scorciatoia più semplice per giungere a una conclusione ugualmente inquietante.