Memory Work - Il cinema di Joana Hadjithomas e Khalil Joreige

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Al Torino Film Festival arriva per la prima volta in Italia, grazie alla curatela di Massimo Causo, una personale completa sul lavoro cinematografico dei due filmakers e artisti visuali libanesi Joana Hadjithomas e Khalil Joreige. Oltre vent’anni di lavoro meticoloso e appassionato sulle immagini per raccontare la memoria del Libano cercando, scoprendo, ricostruendo le storie che si nascondono nelle pieghe della Storia o che la Storia ha occultato, polverizzato, riscritto, perso per strada volontariamente, casualmente, misteriosamente.

Un lavoro personale estremamente coerente che fa dell’immenso corpus produttivo dei due artisti (tra fotografie, installazioni, scritti e cinema lungo e corto) un’operazione sottilmente teorica e profondamente umana in cui a dominare è la sensazione di una vitale possibilità di reazione. Una possibilità che parte innanzitutto dalla consistenza delle immagini, dalla materia di cui sono fatte (non per nulla la maggior parte dei loro lavori è in pellicola 35mm) e dalla loro natura fantasmatica. Il lavoro cinematografico di Hadjithomas e Joreige è infatti prima di tutto un cinema di avventura e un cinema di fantasmi che muove senza sosta tra finzione e realtà, tra immaginazione e ricerca, senza soluzione di continuità. Perché una soluzione non c’è nel cammino di investigazione che mira a individuare, scovare e restituire (a momento debito) le immagini che resistono, magari nascoste, magari latenti, magari mancanti, magari immaginarie ma sempre, in qualche modo, resistenti. Ed è attraverso esse che i due indagano (e raccontano) la possibilità di resistenza dell’essere umano. Possibilità che prendono corpo, reale o immaginario, all’interno di uno spazio fisico, un paesaggio che è per lo più martoriato, negato, azzerato comunque sempre in via di ridefinizione per il conflitto o per le sue conseguenze. Ed è proprio nelle immagini cercate che lo spazio trova una via per riaffermarsi e forse ri-stabilizzarsi, sopravvivendo o meglio ri-vivendo.

Fin dal primo lungometraggio Around the Pink House (1999) che per molti versi percorre una strada narrativa tradizionale, i due registi si pongono come osservatori critici della realtà politica e sociale del loro paese. All’indomani della conclusione della guerra civile, Beirut affronta il gravoso problema della ricostruzione che nel ridisegnare la fisionomia urbanistica della città trova un significativo specchio delle conflittualità interne ai gruppi di potere. Speculazione e corruzione sembrano diventare le regole di questo percorso di rinascita al quale due famiglie reagiscono agendo sull’unica cosa su cui possono: smantellare prima che si possa ricostruire. Lo smembramento di quel palazzo storico tutto rosa fuori tempo e fuori luogo, con i suoi archi e le sue stanze occupate dai dolori diversi dei membri delle famiglie, con i vetri rotti, le pareti crivellate di colpi, le vestigia e le macerie di un passato finito nel frullatore delle guerra diventa l’unica possibilità di reazione, e dunque di resistenza, di quelle persone che decidono di agire prima di subire. E per il futuro chissà. Cosa sarà di quel lotto occupato dalla loro casa, dal loro archivio privato, della loro memoria, del loro futuro non è dato di sapere ma resta la possibilità di sedersi tutti insieme e banchettare davanti all’immagine di ciò che si è, per una volta, voluto fare. Abbattere per conservare, guardando.

Voler vedere è d’altronde il tratto che tiene insieme tutto il lavoro di di Hadjithomas e Joreige come sintetizza perfettamente il titolo del film in cui Catherine Deneuve, nei panni di se stessa, viene portata in giro da un tassista (l’amico e attore feticcio Rabih Mroué). I due intraprendono un viaggio che si fa sempre più intimo con il passare dei minuti che portano la coppia dalla periferia di Beirut fino al sud del Paese e Je veux voir, è quello che dice Deneuve all’inizio del film quando i collaboratori cercano di farla desistere dall’affrontare quel un paese così instabile e imprevedibile: è il 2008 e il Libano, di nuovo, deve ricomporre i brandelli di una società, di nuovo, deve ricostruire una città dilaniata da una nuova fase di guerra. Eppure vincendo le reticenze e la reciproca timidezza, i due si avventurano e guardano: da una parte lo sguardo estraneo e attento dell’attrice francese, dall’altra quello interno di Rabih che attraverso i vetri dell’auto e attraverso le parole con cui racconta alla sua passeggera sembra riscoprire lui stesso la vita intorno a lui, ricominciando a guardare. Come nella sequenza in cui il ragazzo, tornato per la prima volta dopo anni nel villaggio della nonna dove ha passato l’infanzia, comincia a cercare le macerie di quella che era la casa che ha conosciuto e che non esiste più con la forma che le era propria. Camminano i due fianco a fianco mentre la mdp li segue nei passi incerti e ansiosi in cerca di un punto da riconoscere, un mattone, un tassello: un’immagine che manca e che la memoria richiede a gran voce. Voglio vedere. Voglio guardare. Voglio ritenere e tenere, mentre i bulldozer rimuovono programmaticamente le macerie della città cercando di affogarle nel mare, di farle sparire per sempre.

Perché le immagini restano, in latenza, e ritornano, in una forma o nell’altra, si ripresentano. Lo fanno le immagini di una città sconosciuta come la Smirne da cui sono state costrette a fuggire la famiglia di Joana e quella della poetessa e pittrice Etel Adnan che si ritrovano a condividere una memoria tramandata loro oralmente, un deposito di ricordi e di immagini che non hanno mai visto con i proprio occhi ma interiorizzato attraverso i tormentati racconti dei familiari. Un passato fatto proprio, malgrado tutto ma anche un peso di cui prendere coscienza per liberarsene.  Questo racconta Ismyrna (2016): l’esigenza esistenziale di vedere e di alleggerirsi vedendo, conoscendo, recuperando il dolore e attraverso quel processo sentirsi più liberi. Joana, dice, appoggia la valigia quando vede Smirne con i suoi occhi, si libera da quel fardello, lascia che quelle immagini altrui finalmente diventino sue vedendo, e cosi possano sedimentare.  È in fondo lo stesso processo che torna anni dopo con Memory Box (2019) non a caso costruito intorno ai ricordi personali di Joana, ai suoi diari, alle istantanee della sua giovinezza per farle diventare a loro volta quel sedimento necessario a vedere, a scoprire e a restituire. Come è stato per lei con Smirne, Alex - la ragazza adolescente protagonista del film - non ha alcuna esperienza diretta di quel Libano da cui sua madre Maia è fuggita decenni prima; non lo ha mai visto, non lo conosce eppure in qualche modo viene da li, lavora dentro di lei e fonda la sua identità. Ora lo vuole anche vedere. E come Joana andava sul campo per restituire al suo sguardo le immagini di una Smirne reale, Alex apre la scatola dei ricordi della madre e ci guarda dentro. Vuole vedere quei frammenti, quelle schegge che fanno esplodere la forma del film come in essi è esplosa la memoria.

Ecco come le immagini multiformi e inafferrabili diventano il corpo tangibile della resistenza: immagini che vanno cercate perché il loro riaffiorare dalla memoria è l’unico modo di stare dentro al presente.  Cercate negli archivi (The Libanese Rocket Society, 2012), cercate sul territorio (The Lost Film, 2003), cercate nell’immaginazione come quelle inventa dai prigionieri del campo di Khiam che si raccontano in Khiam 2000-2007 (2008); quelle che gli hanno concesso di rimanere in vita travalicando i limiti delle celle minuscole in cui sono stati rinchiusi per un numero di anni al quale si stenta a credere sentendoli parlare. Sei, dieci, dodici anni a infilare nocciolini di olive trafugati, a tessere fili strappati di nascosto agli stracci, a immaginare di scrivere e disegnare sui muri mondi che non c’erano ma che quotidianamente venivano visitati, cieli che non si vedevano ma che costantemente venivano guardati, aria inesistente ma che vitalmente veniva respirata. Per questo i prigionieri parlano fronte alla camera, senza interventi da parte dei due registi perché alle loro parole nulla può essere sovrascritto, perché sono le loro immagini mancanti ad averli salvati fabbricando uno spazio vitale laddove lo spazio, e la vita, erano negato. Non si può aggiungere altro. L’immaginazione è l’unica salvezza, e come per Rithy Pahn in L’image mancante solo l’arte può restituire al dicibile l’indicibile, così l’avventurosa impresa della ricerca di ciò che si è potuto immaginare può restituire al visibile l’invisibile. Anche quando si annaspa e non si riesce più a respirare (A Perfect Day, 2005), le immagini sono e restano da qualche parte. Bisogna cercarle. Per vederle. Bisogna cercarle. Per riavere spazio. Bisogna cercarle. Per vivere. 

 

Nell'immagine in testa, l'opera Circle of Confusion, di Joana Hadjithomas e Khalil Joreige