Le stanze di Rol

Good Madam di Jenna Cato Bass

focus top image

Discorso di semplice applicazione, quello della regista sudafricana ― bianca, occorre dirlo ― Jenna Cato Bass: esplorare l’oscuro passato dell’apartheid filtrandolo attraverso le tonalità angoscianti dell’horror, come nella migliore tradizione del genere, quando diventa critica sociale sotto mentite spoglie. Girato durante il primo lockdown con un cast quasi interamente nero in un quartiere residenziale bianco (che non ha lesinato qualche sguardo ancora astioso verso la troupe, malgrado l’apartheid sia stato legalmente abolito da trent’anni), dopo che il copione è stata concepito, rivisto e corretto da un gruppo di ben dodici sceneggiatori, Mlungu Wam (Good Madam) narra i complessi legami di dipendenza di una domestica nera, Mavis, dalla sua padrona bianca, Diane, catatonica, allettata, ma ancor  in grado di sprigionare un potere dotato di una metafisica spiegabile solo con rapporti di sottomissione demoniaca o, fuor di allegoria, storica e politica. Il tutto sotto gli occhi della figlia di Mavis, Tsidi, che giunta in quella stessa casa per far visita alla madre in compagnia della figlioletta, cerca di spezzare tale legame appellandosi anche a numi ancestrali.

Per quanto fondamentale, la metafora utilizzata trova il suo sviluppo e un notevole margine di interesse nella tipologia di sguardo che Jenna Cato Brass utilizza per restituire questo incubo sociale concentrato in quattro mura. Con riferimenti ovvi alle figure che popolano il cinema di Jordan Peele, la tensione di Good Madam  nasce da un’architettura d’interni soffocante, capace di generare atmosfere spettrali limitandosi a mostrare una prospettiva differente sulle cose, sia questa un’inquadratura a livello pavimento su faticosi lavori domestici, la rotondità mostrata dal basso del pomello di una porta off limits, il dettaglio di una tazza il cui uso è inibito dalla deferenza verso la padrona, il piano ravvicinato su fotografie, suppellettili e manufatti di arte etnica che rivelano aspetti differenti rispetto al consueto. Il tutto diventa così uno scavo alla ricerca di una verità che è lì, soggiacente davanti agli occhi dei personaggi e dello spettatore in tutta la sua evidenza ma che, ingrandita, e quindi evidenziata, appare deformata e fuorviante.

Tramite l’assunzione di questa prospettiva, tutti gli elementi mostrati diventano portatori di una minaccia silenziosa, claustrofobica, che pare affondare la sua potenza in quella quotidianità abituale, ultraquarantennale, che ha prodotto i mostri di una soggezione razziale iniqua e spietata. Good Madam, quasi per intero, pare risucchiare verso l’obiettivo della macchina da presa i volti dei suoi personaggi, indugiando e progredendo costantemente nel racconto tramite primi e primissimi piani penetranti, particolari che puntano a introdursi nell’individuo per vampirizzarne l’anima. E che questa pratica sia suggerita dallo sguardo di una regista bianca determina una sorta di cortocircuito su un senso di colpa storico che sa tanto di tentativo di risarcimento (artistico) postumo.

Le atmosfere opprimenti generate dall’ordinario reso spettrale e dall’alterazione dimensionale di volti e oggetti trovano un felice corollario nell’accurata definizione del sound design, drappeggiato dalle voci del folklore tradizionale che aleggiano come fantasmi di un passato in grado di imporre la sua lunga ombra sul presente (e che in qualche modo mi hanno riportato alla mente la stessa inquietudine vocale già avvertita nelle miniserie britannica 70s Children of the Stones) e lo punteggiano con il trillo costante del campanellino simbolo del richiamo al comando, l’incubo della condizione di un tempo mai davvero terminata. Un affresco sulla persistenza del male che si allarga a osservare anche aspetti di conflittualità generazionale, psicologica e familiare, soprattutto nella condizione del matriarcato e nella cancellazione, di fatto, dell’intero genere maschile, tendenzialmente assente e, nei pochi casi in cui è presente, debole e inetto, pressoché inutile.

Good Madam è il dettaglio di un mondo in perenne sofferenza altrimenti sconosciuto al pubblico europeo, importante, in quest’ottica, per la sua testimonianza e per le enormi contraddizioni che esprime almeno quanto l’ultimo Booker Prize La promessa di Damon Galgut, pubblicato recentemente da edizioni e/o.