Un Animal Kingdom che al contrario di quello di Michôd non parla di clan criminali, anche se parla di famiglia, di legami di sangue, di maturazione dell’identità. Identità che per il giovane Émile va in crisi doppiamente, non solo per le paturnie adolescenziali da gestire in un nucleo monoparentale. Scritto prima della pandemia, Le règne animal immagina un mondo distopico dove un virus sta provocando da due anni variazioni genetiche negli esseri umani che, quando contagiati, mutano in animali. Émile (proprio come il personaggio di Rousseau, secondo ruolo importante per Paul Kircher), sa bene cosa significhi, sua madre ne è stata colpita, e arriva a trasferirsi, con suo padre François (Romain Duris), in un bungalow al confine della foresta dove alcune delle bestie, tra cui mamma, si sono rifugiate. Apologo ecologista o metafora del decadimento cognitivo, non c’è la conciliante stralunatezza delle metamorfosi ovidiane come le aveva riviste Honoré, nei mutanti di Cailley, ma c’è, pur in uno stile studiato col graphic novelist svizzero Frederik Peeters, un senso di irreversibile perdita. Siamo come bestiole, sparse sulla terra; d’altra parte la musica è di Andrea Laszlo De Simone.