Concorso

All the Beauty and the Bloodshed di Laura Poitras

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Nan Goldin, artista americana celebre per i ritratti fotografici della New York underground anni Ottanta, è almeno tre cose per la regista Laura Poitras, che l’ha raccontata in All the Beauty and the Bloodshed : una fotografa tra le più importanti della sua generazione; un’attivista in prima linea contro le compagnie farmaceutiche (e in particolare contro la famiglia Sackler, produttrice dell’ossicodone da cui Goldin è stata a lungo dipendente); la figlia di una famiglia che ha visto la sorella maggiore suicidarsi ancora adolescente.

Queste tre anime sono presenti nel film, tenute insieme dal lavoro fotografico della protagonista e dalla sua voce fuoricampo che commenta le immagini e racconta il lavoro di una vita. Peccato che non arrivino mai ad amalgamarsi in un ritratto composito e complesso, ma piuttosto a presentarsi per frammenti, lasciando allo spettatore il compito di unire e riassumere. Il lavoro di Poitras è soprattutto d’accumulo: di fotografie, di immagini, di film della scena underground, di opere e performance, di discussioni e conversazioni. La vita di Nan Goldin, i suoi racconti fotografici, i suoi lavori e le sue riflessioni.

Quasi settantenne, ancora abbastanza energica da «ribaltare il sistema», come ha detto in conferenza stampa a Venezia (del resto nel film si racconta come la battaglia contro la Sackler della sua associazione PAIN sia stata parzialmente vinta), Goldin è una sopravvissuta – e da sopravvissuta parla. Voce stanca, animo fiero, toni malinconici, occhio implacabile, spietato e insieme dolcissimo, racconta la New York degli artisti straccioni, dei movimenti gay, di David Armstrong, Cookie Mueller, Vittorio Scapati, John Waters, David Wojnarowic; della New Wave, dei locali per lesbiche e drag queen, dell’epidemia di Aids, della morte di una generazione ignorata da autorità politiche e religiose. E attraverso questi racconti spiega l’origine del suo lavoro, che sta nel dolore per il suicidio della sorella maggiore, adolescente ribelle che i genitori bigotti, impreparati ad avere figli, mentalmente instabili pure loro, nell’America puritana degli anni Cinquanta preferirono fare internare, invece di capirla o capire sé stessi.

Abituata fin da piccola a dire di non aver visto, dice Nan Goldin a proposito del suicidio, ha finito per fotografare per accettare fino in fondo di vedere, dunque di aver scelto la vita, ben oltre la mera sopravvivenza, nonostante la dipendenza da oppiacei, l’overdose, le comunità di recupero.

L’attivismo stesso, che passa per performance artistiche nelle istituzioni culturali finanziante anche dai Sackler (il Met a New York, il Louvre a Parigi), è parte del suo lavoro d’artista, dal momento che la sentenza del tribunale contro Big Pharma, se da un lato salva la famiglia dal fallimento a cui porterebbero migliaia di cause multimilionarie, costringe i suoi membri ad ascoltare e guardare via computer le testimonianze dei sopravvissuti, tra cui la stessa Goldin. Una sentenza di tribunale che diventa perciò una sorta di momento verità (il più bello del film, che purtroppo arriva troppo tardi) l’opera più grande di un’artista che non ha fatto della propria vita un’opera d’arte, ma ha usato le sue opere per raccontare una vita.