Venice Immersive

Tmání (Darkening) di Ondřej Moravec

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La depressione, è noto, la si comprende solo se la si prova in prima persona, dal momento che si è isolati in un universo interiore costantemente sfasato rispetto a quello altrui. È dunque possibile tradurne il vissuto in un’esperienza condivisa e riproducibile? Tmání (Darkening) sembra dirci di sì, attraverso un medium che è altrettanto isolante rispetto all’ambiente circostante quale la VR. Diverse esperienze immersive propongono la possibilità di entrare nei panni dell’altro, sia esso migrante, carcerato o senzatetto, seguendo il pur discutibile paradigma della macchina dell’empatia. Ma un simile accesso (o la sua utopia) assume un carattere del tutto peculiare quando a essere raccontata non è una condizione sociale quanto uno stato mentale, da tradurre in uno spazio sensoriale e interattivo.

Tmání rappresenta infatti una delle rare esperienze immersive in cui l’impronta soggettiva dell’autore (Ondřej Moravec), spesso evanescente, è non solo presente ma smaccatamente autobiografica: siamo infatti invitati dal fantasma luminoso che ne riflette la personalità a entrare nello spazio immersivo delle sue tenebre interiori e a esperirne i demoni. Si instaura così un rapporto ambiguo tra prima e seconda persona, dove si è interpellati come altro da sé solo per aderire, gradualmente, al suo vissuto più intimo. Da un punto di vista visivo, lo spazio della depressione è rappresentato secondo i codici convenzionali delle tenebre cinematografiche, che in Tmání richiamano più Harry Potter che la tradizione dell’horror, con foreste buie e disorientanti o interni di case diroccate cui si alternano ambienti familiari come la camera di Ondřej e la biblioteca del College, tutti però abitati da fantasmi nebulosi e specchi frammentati quanto l’io che riflettono.

Una mimesi più innovativa riguarda invece la dimensione del gesto e soprattutto della voce. Il senso di inadeguatezza inaugurato dall’avvento della depressione in concomitanza con le attese performative dell’inizio del College è reso attraverso un gioco fallimentare in cui bisogna ricostruire una frase compiuta con parole avulse dal contesto e prive di un qualsiasi rapporto reciproco. Ma è soprattutto la richiesta di urlare a costituire l’aspetto più originale dell’esperienza, non si sa quanto consapevolmente erede del primal scream teorizzato negli anni Settanta da Arthur Janov come strumento terapeutico. Se da una parte la narrazione procede solo in virtù del comando vocale, dall’altra l’utente modulando urla, canti e suoni meditativi apprende una prassi virtuosa di fuoriuscita dalla prigione interiore: un’elementare tecnologia del sé analoga ad altre esperite in diverse opere immersive visitabili in questi giorni a Venezia (si pensi alle tecniche di combattimento proposte da Fight Back di Céline Tricart).

Scopriamo così che urlando possiamo tanto esprimere quanto combattere i demoni interiori, ma anche incitare un cavallo in corsa in una ritrovata passione per l’alterità. Allo stesso modo, che producendo melodici suoni vocali siamo finalmente capaci di tenere a bada le tenebre e recuperare la luce. Si tratta, certo, di una visione piuttosto semplicistica del ben più intricato processo di guarigione dalla depressione, aderente a un’idea di self-help marcatamente new age che si sta diffondendo in modo sempre più pervasivo nelle opere immersive post-Covid19 (su tutte, Gunball Dreams di Deirdre V. Lyons e Christopher Lane Davis). Quel che è significativo in Tmání come in altre esperienze, è come l’empatia virtuale non sia più identificata con la sola comprensione delle situazioni limite quanto con l’instaurarsi di un training di gesti elementari e automatici per superarle e gestirle. In questo caso, l’acquisizione di abilità espressive minime che superano la barriera del sé e aprono lo spazio di un ascolto reciproco – non per niente la condizione ideale per condurre l’esperienza è in più utenti, una volta superato l’imbarazzo dell’urlo collettivo. Il risultato è un’idea della VR come medium in prima persona: impronta del vissuto interiore dell’autore, incorporazione dell’interazione dell’utente, soprattutto spazio in cui trovare la propria voce.