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E così una delle peggiori Mostre Internazionali d’Arte Cinematografica di Venezia si è conclusa con uno dei verdetti più sensati e condivisibili di sempre. Ha vinto un documentario. Abbastanza tradizionale. Che ha molto commosso la Presidentessa di Giuria. Ma è un’opera giusta. E le lacrime non sono mai state un disvalore. Mi sono commosso anch’io, con All the Beauty and the Bloodshed. E non sono certo che gli ultimi (indimenticabili) venti minuti, con quel procedimento giudiziario effettuato da remoto, siano così tradizionali: contestualizzateli nella contemporaneità, oltre che nella Storia, e pensate – scusate – al dispositivo, e vi accorgerete che non hanno nulla da invidiare al cortocircuito stilistico di Jafar Panahi (che comunque, anche a proposito di questa splendida vertigine tra finzione e realtà, aveva già dato). Nel palmarès sono presenti (quasi) tutti i film migliori della competizione, e lamentarsi del peso dei rispettivi premi e quindi delle graduatorie è pratica capricciosa. Per una volta, davvero, va bene così: sulle Coppe Volpi si poteva lavorare con più originalità, schivando le recitazioni for-your-consideration (Guslagie Malanda avrebbe meritato più di tutte), ma Julianne Moore e i suoi giurati – tra cui vorrei ricordare almeno Rodrigo Sorogoyen – sono gli unici ad avere svolto seriamente un compito serio; con la pancia e probabilmente non con la testa, d’accordo, nondimeno si tratta di Venezia, e non di un festival votato alla sperimentazione, sicché.

Cosa che la 79a Mostra, la sperimentazione, ha tenuto ben alla larga, tanto dal Concorso, quanto dal Fuori. Uno dei più abusati luoghi comuni critici festivalieri è che il meglio stia – ogni volta, non solo quest’anno – nelle sezioni collaterali. Non è vero. Si tratta di un cliché argomentativo che tradisce pochezza dialettica. Esempio. Orizzonti non è e non è mai stato il serbatoio di primizie inventive. La percentuale può giocare a suo favore (è chiaro che su venti titoli due o tre si salvino e possano perfino risultare ottimi), ma se in questa edizione erano presenti mediocrità madornali come Aru otoko, La syndacaliste, Ti mangio il cuore e En los márgenes (e tra queste ce n’è una veramente imperdonabile, e non è il film italiano), qualcosa vorrà pur dire. Lo stesso discorso si può fare per il Fuori Concorso. Il quale è da anni terreno di coltivazione di corrispondenti nostalgici e fuori tempo. Al netto delle comprensibili première per soddisfare il tanto vituperato tappeto rosso, le lusinghe ai “generi preferiti” (tipo l’horror e il western) manifestano inadeguatezza e insieme disperazione: l’inadeguatezza a capire il contemporaneo e il disperato attaccamento a una malinconica bombola d’ossigeno che ha esaurito le sue scorte già da un pezzo.

Il problema dunque è nel manico. A monte. In un immaginario ideologico che vuole la Mostra cucita addosso esclusivamente al pubblico e a una cinefilia polverosa. Dopo un primo mandato (1999-2001), Alberto Barbera è tornato a Venezia nel 2011 con il preciso intento di salvarla dalla penuria di spettatori. Presto fatto: negli anni si è conquistato una posizione tale da farsi aprire pressoché tutte le porte di Hollywood. La sua abilità con un sistema sempre più ostico è riconosciuta, ed è servita ad aprire la kermesse a un bacino d’utenza sempre più giovane, sempre più cinefilo. Ma vorrei ricordare che nel 2000 in Concorso c’erano La vergine dei sicari, Il fantasma, Platform, L’isola, e poi Clara Law, Fruit Chan… Capite la differenza? Barbera è ormai seduto in una gestazione che non è più di ricerca ma semplicemente di accettazione e di consolidamento. Le sue Mostre rinforzano i matrimoni con i poteri forti, non perlustrano (più). Sostengono lo status quo, non frugano e non perquisiscono. In questo modo, hanno appagato sia chi alla Mostra chiede l’abito da sera, sia chi cerca continuamente e inopinatamente una conferma (del proprio gusto, dei propri miti, del gradimento comune). I comitati di selezione, a maggior ragione se inaffrontabili, sono unicamente uno spazio da colophon: i film arrivano, non sono visionati; i film sono un’offerta che non si può rifiutare, non una scelta. Dinamiche piccole, benché espertissime, per manifestazioni monstre. Eppure Venezia non possiede né l’afflato bulimico di Toronto (non potrebbe neppure permetterselo), né la prepotente ambizione feudataria di Cannes, due festival in cui i comitati di selezione è come se non esistessero, sono un semplice trucco, perché i film per l’appunto già ci sono, già sono presenti a priori. Sono quei film. Quindi perché fare finta? Che poi il cinque per cento delle opere in cartellone – d’accordo, facciamo pure il dieci – sia realmente passato sotto un attento vaglio è purtroppo la classica eccezione, che per giunta intristisce alla luce dei risultati.

E guardate che è inutile credere che oggi non ci siano più opere radicali e decisive come La vergine dei sicari e Il fantasma. Ci sono eccome, magari non ogni anno, ma ci sono. Basta saperle vedere. Il fatto è che con La vergine dei sicari e Il fantasma le sale della Mostra, già non sold out, si svuotavano dopo mezz’ora, con critici che accusavano Barbet Schroeder di immoralità e critici che si chiedevano cosa ci facesse João Pedro Rodrigues in Concorso a Venezia quando il suo posto privilegiato sarebbe stato il festival gay Da Sodoma a Hollywood (non costringetemi a fare nomi, anche perché alcuni non sono più tra noi: si tratta comunque di riflessioni che, come si nota, oggi non solo sarebbero vilipese, ma anche ragione di licenziamento in tronco). Invece le sale con The Son sono strapiene e rimangono strapiene fino alla fine. Stessa cosa con Don’t Worry Darling nel Fuori Concorso. La nuova direzione della Mostra di Venezia è così un placet, non più una sfida. Un’adulazione, non un’investigazione. Ed è, in particolare, e quantunque spesso assurdo, un esercizio endogamo: i figli battezzati devono crescere e restare in famiglia, promossi con l’approvazione di tutto il parentado. La presenza in Concorso del deprecabile Shab, Dakheli, Divar – Beyond the Wall dell’iraniano Vahid Jalilvand, che con i due film precedenti vinse numerosi premi in Orizzonti, è emblematica. Quello dell’endogamia è però un tratto distintivo anche di Cannes, perciò siamo tranquilli. Senza dubbio è una caratteristica più rognosa rispetto ai cosiddetti “pacchetti”: è risaputo che ormai i sales agent detengano un potere straordinario, ma è pur vero che Venezia e Cannes sono Venezia e Cannes, non Torino.

Quindi, soluzioni, ne abbiamo? Sicuramente. La più drastica, e forse la più utile: un colpo di spugna al vertice e a tutto il giro. La Mostra ne guadagnerebbe, e ne guadagnerebbero anche i cinefili, il pubblico giovane e meno giovane, il cinema, perché un carrozzone che avanti da sé non fa bene a nessuno, tantomeno ai film. Ma c’è un’altra soluzione che porterebbe alle casse di tutti, dai diretti interessati allo spettatore casuale, qualcosa senza nome che sta in bilico tra l’eccitazione e l’estasi. Si chiama audacia. Altresì detta intrepidezza. L’audacia di rinunciare alle comodità, di uscire dal seminato (ormai decennale, quindi anche basta), di resistere ai ricatti commerciali; l’intrepidezza di dire di no e di solleticare l’inesauribile polifonia della proposta odierna senza per forza esserle sudditi; l’audacia, infine, di conoscere e di fidarsi di più della critica che conta, quella attenta e sul pezzo, quella che vede e individua e distingue. Questa Direzione l’ha dimostrato a più riprese di ignorare l’identità contemporanea della critica, di non sapere chi e cosa, di decidere su un affidamento malriposto. Tanto la Mostra – appunto – va avanti da sé. Purtroppo per lei, però, per la Mostra intendo, anche il cinema che (ci) sta a cuore va avanti da sé. Per un’altra strada.