Concorso

Monica di Andrea Pallaoro

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Con Monica (dichiarato secondo capitolo di una trilogia), Andrea Pallaoro torna in concorso a Venezia cinque anni da Hannah (valso a Charlotte Rampling la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile), con un altro film tagliato e cucito tutto intorno alla sua protagonista di cui - anche questa volta - porta il nome.

Il regista continua dunque il suo lavoro restando fedele - molto - alla sua idea di cinema in cui, prima di tutto, viene la ferma volontà di affermare la propria autorialità. L’impostazione formale precisa, rigorosa diventa dunque non solo funzionale al racconto ma dichiarazione di intenti, simbolo programmatico di un modo di guardare al cinema e al mondo. L’affermazione di personalità autoriale comincia qui da un formato 1.2:1 che chiude fin dalla prima inquadratura la bellissima Monica dentro l’ immagine quasi isolandola da ciò che ha intorno.

La storia si svolge negli Stati Uniti, prima in California, dove Monica vive sola, affranta da un amore finito di cui non si sa nulla, e poi nel Midwest, dove si sposterà chiamata dalla cognata al capezzale della madre. Ma di quel mondo fuori non vediamo quasi nulla, come se non contasse in fondo veramente. È invece la statuaria bellezza di Monica, pervasiva e incombente, a dominare su tutto, tanto che il suo corpo imponente riempie ogni inquadratura, il suo viso, i suoi capelli rossi, la sua schiena, le sue mani, la sua nuca. Un corpo che le è costato dolore. Monica non vede infatti la madre da anni, da quando lei l’ha accompagnata a una fermata del bus incapace di starle vicino dopo aver scoperto che suo figlio voleva essere una donna. Eppure adesso la madre è malata, gravemente, e Monica non riesce a non tornare da lei, con il suo corpo ingombrante. La ritrova, lucida a tratti, e la osserva, standole accanto, e conquistando proprio attraverso il contatto fisico una vicinanza che sembrava perduta sempre. I due corpi sconosciuti e diametralmente opposti - tanto plastico quello di Monica (Trace Lysette) tanto fragile quello della madre (Patricia Clarkson) - si riavvicinano dunque concedendosi, semplicemente, la possibilità di esserci senza che forse serva più nemmeno sapere.

Così prende forma, nelle mani di Pallaoro, il ritratto intimo di una persona che ha scelto e assunto su di se le conseguenze della propria scelta: una scelta tanto ingombrante da occupare tutto lo spazio esistenziale. Ed è perfetto, in questo, il modo in cui Lysette (attrice trans diventata nota soprattutto per la serie Transparent) si affida allo sguardo del regista che, confinandola dentro alle immagini, la indaga e la mostra senza voyeurismi ma con una sorta di intima - per quanto prepotentemente estetizzata - partecipazione.

E poi c'è il tempo. Quello che Monica ha trascorso lontano dalla sua famiglia, una vita, e che è anche quello che si prende il film per lasciare che i pochi elementi narrativi vengano suggeriti con pudore, senza insistenza, senza clamore, e per provare a concedere ai personaggi la possibilità di ri-conoscersi accettando le trasformazioni. Anche quella del rancore e del risentimento, senza dimenticare. Un tempo che si dilata come per lasciare che in quella sofferenza ognuno possa riconoscere in fondo le tracce della propria, al di là delle presunte specificità.