Il cinghiale bianco

Il cinghiale bianco

Il conguaglio continuo

C’è un’espressione che Cesare Zavattini da qualche parte ha usato nei suoi scritti e di cui non riesco a ritrovare la fonte. Se qualcuno è in grado di aiutarmi, non si tiri indietro. Gliene sarei profondamente grato, perché ormai per me è come cercare un ago in un pagliaio. L’espressione è “conguaglio continuo”.  Zavattini parla di “conguaglio continuo” riferendosi al rapporto che deve intercorrere tra la rappresentazione e la realtà, ovviamente in un’ottica neorealista. Il timore di sbagliare mi spinge ogni volta a ritentare l’impresa. Ma devo arrendermi puntualmente, perché non riesco a recuperare il punto esatto.

Perché mi è tornato in mente questo “conguaglio continuo”? Per una riflessione estemporanea, abbastanza retrò, scontata, che ben si addice a una rubrica come questa intitolata al Cinghiale Bianco, sullo stato delle cose dei documentari, l’araba fenice del cinema, specialmente in Italia. Ma procediamo con ordine. Uno dei grandi vantaggi di chi fa i documentari, di solito, è che può contare su spettatori interessati, mirati. Lo svantaggio è che spesso questi spettatori non sono tantissimi. Per un documentario, passata la recente stagione delle vacche grasse inaugurata dai primi film di Michael Moore (che ormai mostra le corde, come nell’ultimo, imbarazzante Where to Invade Next?), che forse meritavano di essere visti più come pamphlet strafottenti che come esemplari ortodossi di non-fiction, la consolazione è quella di trovare ospitalità presso un festival. Maggior prestigio quando il documentario sta dentro una competizione, nazionale o internazionale, con film di finzione, perché vuol dire che la scelta è stata particolarmente mirata. Ma va bene anche se si tratta di un festival di documentari.

La verità, piuttosto banale, però è un’altra. I documentari, proprio per quel rapporto stretto che comunque hanno con la realtà, diciamo così: a monte, quantunque poetici o stranianti (quando cioè la macchina-cinema scopre se stessa, e la messa in scena e in campo vengono per così dire esibite, denunciate), devono essere visti, condivisi e soprattutto studiati con cognizione di causa. Devono diventare sempre di più strumenti di lavoro, oggetti pratici, mezzi di conoscenza capillare. Andrebbero realizzati e fruiti sul posto, con i diretti interessati, i soggetti coinvolti, o scambiati con realtà o tribù di documentaristi vicine o lontane purché consimili, come utensili, suppellettili o oggetti di pronto impiego. I festival e i premi fanno bene ai documentari, ma non sono tutto.

Spesso purtroppo li circondano di un’aura di prestigio che li allontana dalla realtà, dalla condivisione, dalla circolazione presso fruitori motivati, competenti delle cose di cui i documentari parlano e non esperti soltanto di estetica, di stile, di rigore linguistico. Poi, se son fatti bene, tanto di guadagnato. E di cappello. Chi li realizza dovrebbe far di tutto per farli vedere, e cercare di spendere il meno possibile per non dover rientrare nei costi a tutti i costi, ci sia permesso il bisticcio. Farli, mostrarli, non presentarli qua e là avvicinandoli alla società dello spettacolo ma di fatto esiliandoli dal mondo reale in cui sono nati e possono trovare un conguaglio continuo, come diceva appunto Zavattini.

Recentemente ne abbiamo visti un paio che hanno il merito, tra le altre cose, di essere accurati, ma soprattutto di aver conosciuto una vita che non si è esaurita nel solo circuito festivaliero. Documentari insomma che sono andati incontro agli spettatori, e non viceversa. Spettatori di conseguenza responsabilizzati, motivati, attenti. Non ne avrebbero bisogno, nel senso che la cosa peggiore da augurargli è quella di dover aver bisogno di un endorsement critico, per le ragioni di cui sopra. Ma giusto per non lasciare questo discorso troppo sul vago, citiamoli.

Il primo La ragazza Carla, il film di Alberto Saibene che non è corretto neanche iscrivere nella categoria del documentario, tratto dall’omonimo poemetto sperimentale di Elio Pagliarani, interpretato da Carla Chiarelli e Stefano Belisario, in arte Elio di Elio e le Storie Tese. Insomma, un’opera molto bella, intensa, complessa, suggestiva, in bilico tra il documentario, il saggio poetico e il film di finzione che rientra di diritto nella categoria pasoliniana del «cinema di poesia». Non soltanto perché in appena 60 minuti restituisce attraverso la voce recitante della Chiarelli (che già l’aveva portato a teatro) gran parte di un testo memorabile, sperimentale e neorealista a un tempo (Pagliarani del resto, giunto a Milano a diciott’anni nell’immediato dopoguerra contava di scrivere un soggetto per Zavattini e De Sica), ma perché ne visualizza lo spirito, il contesto e la geografia umana degli anni del «miracolo economico» attraverso un minuzioso intarsio di frammenti audiovisivi provenienti da vari archivi. C’è in quest’opera prima ambiziosa eppur discreta, da vedere e rivedere, soprattutto da studiare, la volontà di farsi interprete di un passato che riaffiora in un presente se possibile più cinico e involgarito, esemplificato negli sketch di Elio che rincarano in chiave canagliesca il senso di spaesamento della giovanissima Carla Dondi evocato dai versi di Pagnarani. Un progetto che è tante cose assieme, un crocevia di contributi artistici come le animazioni di Gabriella Giandelli.

Il secondo è Homeward Bound - Sulla strada di casa, realizzato da Giorgio Cingolani e Claudio Gaetani con alcuni ragazzi adolescenti che vivono presso l'Hotel House di Porto Recanati, un enorme e isolato condominio di diciassette piani e 512 appartamenti dove vivono circa duemila persone provenienti da quaranta paesi differenti. Si tratta di un luogo periferico e marginale che risulta essere socialmente, fisicamente e simbolicamente separato in modo netto dal resto della piccola cittadina marchigiana di Porto Recanati. Qui siamo di fronte a film necessario, di testimonianza, in cui la cura della regia e la dichiarata costruzione narrativa (è suddiviso in capitoli onomastici) non impediscono di offuscare il valore primario di opera partecipata. Gli autori dimostrano di saperci stare con questi ragazzi e ci stanno indipendentemente dal film. Il film costituisce un valore aggiunto, artistico, a quella che resta di fatto un’esperienza. Il film va dunque recuperato, non soltanto nei festival in cui è stato selezionato, in Italia e fuori dall’Italia, magari sul posto. Scambiato con altri film che offrono una base di incontro e confronto su realtà consimili. Gli si farebbe un torto limitandosi a valutarlo per quel che è sullo schermo, perché come punta d’iceberg di un vissuto, di una volontà di esserci, rappresentare, rappresentarsi, ci dice molto di più di quel che il cinema documentario potrebbe e dovrebbe essere oggi.

Si ha un bel dire sull’impegno di chi degna del proprio sguardo d’autore la realtà, nei modi consentiti dalla non-fiction. Ma la verità è un'altra, più semplice e banale. Che non basta fare dei film, laddove serve principalmente essere presenti e continuare a esserci dopo, e sempre. Ecco, quello di Cingolani e Gaetani, è un film che non basta a se stesso, esige un grado di coinvolgimento diretto, non gerarchizzato dalle pratiche della visione e della restituzione all’esterno del dato sensibile. È autentico, trasparente, limpido, senza aver bisogno di sembrarlo.